Cronache, Festa del Libro Ebraico 2024

Pugno, ascia, mare ghiacciato… quando leggere spinge dove fa male.


Matilde Padovani

Liceo Ariosto - Ferrara

Se il libro che leggiamo non ci sveglia come un pugno sul cranio, a che serve leggerlo? A essere felici, come scrivi tu?” Così un Kafka ventenne in una lettera indirizzata all’amico Oskar Pollak, compagno di scuola e di letture, che pensava alla letteratura come ad un balsamo, ad una pratica edificante che ci metta in pace con le nostre debolezze, autoindulgente. Per Kafka, invece, leggere un libro così era inutile: “Noi abbiamo bisogno di libri che ci travolgano come una disgrazia, come la morte di qualcuno che amiamo più di noi stessi, come se fossimo respinti nei boschi, lontani da tutti, come un suicidio, un libro dev’essere l’ascia per il mare ghiacciato dentro di noi”.

Di questo e di altro si è discusso nell’incontro con Mauro Covacich, autore del libro “Kafka(Le Onde, La nave di Teseo, 2024), che si è tenuto venerdì 27 settembre al Museo dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara in occasione della XV edizione della Festa del Libro Ebraico intitolata Novecento. Moderatrice dell’incontro Micaela Latini, docente di Letteratura tedesca presso l’Università degli Studi di Ferrara.

Kafka, prima di sapere cosa scrivere, sapeva cosa leggere.

Il Kafka lettore ha una visione della letteratura come qualcosa di utile se ci mostra le cose come stanno veramente, se ci svela la verità sotto lo spesso strato di mare ghiacciato delle nostre ipocrisie e delle attività decisive e di nessuna importanza che affollano le nostre giornate. Ha una visione della letteratura come qualcosa di bello se porta ad una verità che non si conosceva e che non si vuol sentire: un libro è bello se spinge dove fa male, se è scomodo, perchè soltanto così leggere fa bene. Questa concezione di una letteratura che insegue la verità si mantiene anche nel Kafka scrittore.

Il libro di Covacich non è un saggio organico sul grande scrittore praghese a cent’anni dalla sua morte, quanto piuttosto un inseguimento, un corpo a corpo con lui tra vita e letteratura. Unendo autobiografia e racconto, Covacich affronta il suo grande amore letterario fin dai tempi dell’adolescenza, lo segue nel vento dell’est, rincorre le inquietudini della mente di un genio che non avrebbe voluto essere letto e che qui rivive “la certezza di non essere una chimera”.

Diversi gli aspetti affrontati. Primo fra tutti il tema dell’estraneità, dell’erranza, della non appartenenza. Kafka si sentiva estraneo all’ebraismo, non era credente, non era sionista, anche se ha portato nella letteratura l’essere ebreo, l’essere senza patria, l’essere apolide.

Lo scrittore boemo era estraneo alla lingua tedesca: non la parlava, l’ha scelta per scrivere dopo averla appresa a scuola; per questa ragione il suo tedesco è essenziale, astratto, spigoloso, lontano dal parlato; è il tedesco rubato alla cultura dominante dell’impero austro-ungarico, quello usato negli uffici nei quali, ancora una volta estraneo, finirà a lavorare. All’amico Max Brod scrive: “Ogni lingua è un mondo. Se scegli quella di un altro, ti aggirerai tutta la vita per un mondo non tuo”.

Kafka si sentiva estraneo alla sua città natale, Praga, che detestava, ed estraneo alla sua famiglia: aveva un rapporto conflittuale e di incomunicabilità con il padre. Per lungo tempo si è sentito estraneo anche all’amore e alla convivenza con una donna, ritenendo di aver consacrato la vita alla letteratura come in una sorta di monachesimo.

Alla fine, lo scrittore diventa estraneo anche alle sue opere: perfezionista, eternamente insoddisfatto, scrive all’amico Max Brod di bruciare, post mortem, il prima possibile, tutti i suoi scritti. Dunque un genio inquieto, che non avrebbe voluto essere letto e che, come scrive Covacich, “se fosse esistito un mondo migliore, nel quale gli amici non tradivano le ultime volontà, noi non avremmo dovuto leggere”. È a causa della vittoria dell’estetica sull’etica che lo abbiamo potuto leggere. Oppure grazie ad essa.

Kafkiano” è un aggettivo spesso utilizzato per indicare una situazione assurda, paradossale, inverosimile. Per Covacich, Kafka non crea un mondo insensato e incomprensibile, piuttosto sono l’assurdità e l’incomprensibilità del mondo che si svelano nei suoi scritti. In Diari, lo scrittore annota questa frase: “Nella lotta tra te e il mondo cerca di assecondare il mondo”, il mondo è assurdo e, solo assecondandolo, ne usciremo vivi. Per Covacich il mondo, visto bene, da vicino, con gli occhi coraggiosamente aperti, o è kafkiano o non è.

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