Cronache, Internazionale Ferrara 2024

La Storia raccontata dagli alberi


Martina Anna Fricchione, Sofia Righetto

Liceo L. Ariosto - Ferrara

Siamo solo noi umani i protagonisti della Storia? Con quale e con quante lingue la si racconta? E soprattutto, chi è che la racconta? 

Come risalendo dalle radici alla folta chioma di un albero, la scrittrice e giornalista Paola Caridi ha presentato la sua ultima pubblicazione, Il gelso di Gerusalemme (Feltrinelli, 2024), durante l’evento condotto dalla giornalista Catherine Cornet nel tardo pomeriggio di venerdì 4 ottobre, primo giorno di Festival di Internazionale, presso la Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea

Specialista di Nord Africa e Medio Oriente, Caridi ha affrontato la questione palestinese da un punto di vista inedito e non istituzionale: attraverso il rapporto dell’uomo con la terra, nella sua dimensione più sensibile e materiale. Si comincia con una domanda: alla terra, che è bassa, bisogna chinarsi per lavorarla, o inchinarsi per omaggiarla? 

Caridi non definisce romantico né fascinoso il suo rapporto con la terra dove è cresciuta, bensì piuttosto semplice e reale: un piccolo appezzamento, volto alla coltura di sedano e carciofi, nell’interland romano, sul quale si affaccia sia la cupola di San Pietro sia la ciminiera della fornace lì vicina. 

Una terra, quella abitata da Caridi, che è cambiata varie volte, a partire dal 2001, influenzandone notevolmente il percorso di lavoro e di studio: prima Il Cairo e poi Gerusalemme, dove ha vissuto per 10 anni con la dolce compagnia di un albero di gelso risalente agli anni ‘30 del ‘900. 

Dal particolare dell’esperienza di vita dell’autrice, l’analisi si è estesa ad una più ampia visione del rapporto uomo-territorio: quale tipo di legame un popolo può instaurare con la terra in cui si stabilisce? 

Nel romanzo di Caridi, la tematica si sviluppa attorno alla questione israeliano-palestinese: cosa significa, dunque, la terra per il progetto sionista? E per i palestinesi, invece? La relazione terra-popolo si risolve, in entrambi i casi, nel concetto di radicamento, che, tuttavia, assume due accezioni sostanzialmente opposte: le radici degli alberi piantati dagli israeliani sono meri mezzi finalizzati a spezzare ogni tipo di legame della terra con la Palestina storica e per impossessarsene in maniera definitiva; contrariamente, i palestinesi piantano alberi per legarsi indissolubilmente a quella terra, di cui si sentono parte integrante, a testimonianza del loro viscerale senso di appartenenza con il territorio. Significativo è l’esempio che Caridi porta del contrabbando di terra diretto verso i campi profughi libanesi e siriani dove erano trattenuti diversi membri della prima generazione di palestinesi: agli anziani di questi villaggi, che avevano già organizzato il loro funerale, arrivava un sacchetto di terra da porre sotto la nuca al momento della sepoltura. Solo così si poteva mantenere vivo il legame con la propria terra anche dopo la morte, nella certezza, mitizzata ma rassicurante, di non lasciare mai il luogo da dove si proveniva. 

A sottolineare l’importanza di questa connessione tra l’elemento umano e quello territoriale è anche, e soprattutto, il linguaggio simbolico: basta volgere lo sguardo ai mosaici del Monte Nebo, in Cisgiordania, dove sono frequenti immagini di contadini affiancati da verdeggianti alberi. Altro elemento essenziale in questa storia palestinese sono le arance, storicamente motivo di ricchezza e prosperità, per poi subire un processo di risignificazione, diventando emblema di nostalgia, dal 1948, anno in cui gli israeliani ne acquisirono il monopolio. 

Le piante, quindi, non sono esseri silenti in questo mondo dinamico, ma raccontano la Storia, talvolta anche più delle fonti scritte stesseL’essere umano è, infatti, solo uno dei tanti attori sul palcoscenico del mondo; la natura ha un proprio linguaggio, che noi abbiamo perduto nel corso del tempo e che abbiamo il dovere di recuperare; la Storia non può essere costruita solo basandosi su una cronologia umana: gli alberi non parlano solo di sé stessi, parlano di un intero ecosistema. Questo è l’unico modo per garantire una reale e sicura convivenza tra parti.

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