L’isola di Arturo è un romanzo scritto da Elsa Morante, pubblicato da Einaudi nel 1957, con il quale l’autrice romana vinse il Premio Strega. L’opera confluisce nel bacino d’utenza del romanzo di formazione, (genere di grande successo, diffusosi capillarmente in Europa a partire dall’Ottocento), una tipologia di narrazione che ripercorre sistematicamente le tappe decisive della crescita e della maturazione di un adolescente verso l’età adulta. Crescere è un percorso continuo, un percorso caratterizzato da numerose variabili, molte delle quali ignote aprioristicamente, un percorso complicato ma in costante mutamento, frutto del rapporto con il prossimo e dell’educazione impartita dalla componente genitoriale ai figli. Nella travagliata corsa verso la maturità, l’essere umano è ripetutamente influenzato dalla realtà circostante, dall’opinione altrui, dall’evoluzione della società e dagli eventi segnanti l’infanzia; ogni cosa che accade, persino la più insignificante, è in grado di influire sulla crescita personale di un individuo, definendo, a conti fatti, la personalità del singolo fino all’età adulta. Avvicinarsi al prossimo, instaurare legami solidi e duraturi diviene condizione necessaria per l’affermazione ed la sopravvivenza dell’io come individuo tra gli altri. La narrazione delle vicende è affidata al protagonista-narratore, Arturo, ormai adulto, il quale ripercorre in prima persona i momenti più significativi della sua fanciullezza. La storia si svolge a Procida, negli anni Trenta del Novecento, con al centro la figura di Arturo, condannato ad un’eterna solitudine; il ragazzo, orfano di madre, vive in una condizione di completo abbandono dal momento che il padre, Wilhem, incurante delle sorti del figlio, è sempre via per interminabili viaggi. Il protagonista cresce così nel ricordo costante della madre, morta a causa del parto, e nell’ammirazione sfrenata per la figura paterna, idealizzata quale eroe in grado di compiere miracolose gesta nel corso delle sue frequenti assenze. L’uomo viene elevato dal proprio figlio allo status di divinità, cercando in lui una figura di riferimento che nella realtà non trova; Wilhem è, per l’appunto, un uomo schivo, introverso ed apparentemente incapace di provare sentimento alcuno, incurante delle attenzioni rivolte dal proprio figlioletto. Un distacco accentuato ancor di più dal fatto che il padre rifiuti di chiamarlo con il vero nome, preferendogli costantemente l’appellativo “Moro”. Arturo costruisce la propria bolla, un mondo fantastico in cui proiettare viaggi esotici, presso le stesse terre conquistate dal padre e storie aventi per protagonisti i condottieri dell’epopea cavalleresca. Lo scorrere monotono degli eventi viene sconvolto dall’introduzione del personaggio di Nunziatella, una giovane ragazza proveniente dai bassifondi di Napoli presa in moglie da Wilhem: se inizialmente Arturo manifesta un profondo rancore nei confronti della donna, rea di sottrarre l’uomo alle attenzioni del ragazzo frapponendosi costantemente nel rapporto tra i due, con la nascita del fratello Carmine il giovane Arturo comprende che i contrastanti sentimenti per Nunziatella altro non sono che l’espressione di un sentimento d’amore a lungo celato ed incontenibile. Ignorato dalla donna amata, le cui attenzioni sono rivolte unicamente al nascituro, Arturo inscena così il proprio suicidio, assumendo le pillole del sonnifero del padre. Nella convalescenza viene accudito da Nunziatella, alla quale riesce a rivelare i propri sentimenti, baciandola per esserne poi rifiutato. Infuriato, il ragazzo sfoga il suo amore non corrisposto con un’amica della matrigna, la giovane vedova Assunta, che inizia il ragazzo al sesso, per poi scoprire di non essere l’unico a Procida a godere dei favori della donna. Contemporaneamente, crollano anche i miti fanciulleschi costruiti sulla figura di Wilhelm: Arturo scopre che l’uomo, che si è addirittura dimenticato del compleanno del figlio e si è allontanato nuovamente dall’isola, non compie affatto leggendarie imprese, ma, quasi ridicolmente, si reca a Napoli, e che ha pure intrecciato una relazione con un uomo. Cresciuto, Arturo riconosce nella figura paterna un uomo come tanti, privo di quella componente eroica da lui idealizzata e idolatrata negli anni della fanciullezza.
Sconvolto e privo di un qualsiasi slancio vitale, Arturo lascia Procida per arruolarsi come volontario nella Seconda Guerra Mondiale, affiancando l’amico Silvestro, abbandonando così il locus amoenus e tutte le persone che avevano segnato la sua vita. Catturato dal nemico e dirottato presso un campo di prigionia in Africa, deciderà di scrivere le sue memorie.