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Durante la lettura del romanzo di cime tempestose sono arrivata a due conclusioni: questo non è un romanzo d’amore ed è profondamente critico.
Non è un romanzo d’amore perché non c’è amore, c’è passione, c’è vendetta, c’è emotività, c’è abitudine,
ma non c’è amore. O almeno per come noi l’amore lo concepiamo.
Non mi piace definirlo “amore tossico” dato che mi sembra una definizione semplicistica e troppo generica: cosa vuol dire infatti tossico? proviamo a indagare meglio.
Il rapporto tra Catherine e Heathcliff, principalmente, ma in generale tutte le relazioni descritte in questo romanzo, è caratterizzato da una profonda dipendenza dall’influenza dell’altro, e per quanto questo sia distruttivo, sembra che per loro sia in realtà più distruttiva l’assenza dell’altro.
Infatti Catherine si ammala quando Heathcliff va via, e gli unici momenti in cui, nonostante litigano tutto il tempo, sembra ritrovare una pace naturale, il suo stato di natura primordiale perfettamente confortevole, è proprio quando Heathcliff ritorna.
Dal canto suo Heathcliff, uomo assolutamente imperscrutabile e marcio, mostra la sua passione solamente con Catherine, e ciò è bastato ( almeno per me ) per perdonarlo un pochino.
Sebbene manchi totalmente l’aspetto corporeo dell’amore in questo romanzo, tuttavia è un assenza piacevole e quasi non notata, dando spazio a un sentimento sottile. Questo probabilmente è anche dato, in maniera concreta, dall’inesperienza dell’autrice riguardo questi temi.
Ho trovato critiche in praticamente tutto il romanzo, ma quella principale riguarda il tema delle disuguaglianze:
Concordiamo tutti che Heatchliff non sia un buon personaggio, ma che anzi la sua cattiveria e la sua malignità a volte ce lo facciano anche odiare, eppure lui non è altro che il frutto della cattiveria stessa di chi l’ha allevato, e di chi ora lo critica.
È stato allegando tutta la sua infanzia come uno scarto sociale, ed egli si è adattato subito a quel mondo, creandosi uno scudo di indifferenza e di vendetta, tranne che con Catherine, l’unica creatura che un po’ gli somigliava.
Possiamo davvero criticare allora un uomo che è frutto delle nostre stesse azioni? come possiamo giudicare il suo animo come corrotto, senza vedere che corrotti siamo noi? Noi che lo giudichiamo e che nonostante ciò ci sentiamo superiori, che lo additiamo come malvagio, senza conoscere davvero ciò che il suo animo sarebbe stato se avesse potuto esprimersi nella sua interezza.
Le nostre azioni lasciano un’impronta indelebile nel cuore degli altri, non pretendiamo di essergli totalmente indifferenti in modo da non sentirci in colpa per ciò che ne risulta.
Credo che questa sia una morale fondamentale nel mondo odierno, non solamente per il tema dell’immigrazione, ma per tutte le disuguaglianze della nostra società. Pensiamo davvero che l’identità di un detenuto, un malato psichiatrico, un povero, un disabile o un immigrato sia solo questo? o forse c’è qualcosa di più? E soprattutto, come possiamo credere a un cambiamento se siamo noi stessi ad impedirlo: un errore, ripetuto più volte, diventa consapevole e volontario.
Non nascondiamoci dietro la faccia dell’indifferenza e della superbia, illudendoci di non essere mai giudicati, perché il primo giudice siamo noi stessi.