Cronache

Libertà non vuol dire benessere


Giulia Pellegrini - Francesco Vitali, Liceo L. Ariosto di Ferrara


Nella storia, lo stato sociale ha subito innumerevoli cambiamenti. Attualmente, ad averlo alterato, è stata la pandemia, che ha mostrato al mondo quanto avere una società avanzata e un buon livello di sanità pubblica siano fondamentali in caso nuove sfide.
Questo è il tema affrontato nel libro Lo Stato Sociale – storia politica ed economia, scritto da Francesco Farina, che è stato intervistato da Alessandro Lubello in occasione dell’evento del festival di Internazionale, domenica 3 ottobre 2021 alle ore 11:00, presso il Ridotto del Teatro Comunale di Ferrara. Il libro tratta l’evolversi del rapporto tra stato sociale, mercato e popolazione. “Per poter avere una chiave di lettura del libro” – dice l’autore – “bisogna tenere presenti due concetti apparentemente opposti: l’individualismo e la necessità di vivere in gruppo. Bisogna prestare attenzione, infatti, perché se tutti abbiamo il diritto di vivere come meglio pensiamo, la nostra libertà deve essere limitata ogni volta che va a ledere quella di un altro individuo”. Un esempio attuale può essere la libertà di protestare, diritto fondamentale, ma a volte esercitato in modo improprio: abbiamo visto tutti le proteste, in piena pandemia, di quelli che non volevano portare la mascherina. Questa libertà, però, non può essere esercitata perché, se così fosse, saremmo tutti potenzialmente pericolosi per il prossimo.
Questa tensione tra individualismo e necessità di vivere in gruppo è condizionata dall’interferenza tra società e mercato, alla base di numerose disuguaglianze, alcune “giuste” e altre “ingiuste”. Come testimonia Farina: “Chi afferma che il problema della disuguaglianza non sia importante e basta impegnarsi per poter ottenere successo si sbaglia perché non basta sforzarsi per poter migliorare la propria condizione“. Non dipende tutto dal merito, che certo riveste una parte importante (ed è una delle “disuguaglianze giuste” citate dall’autore) ma sono fondamentali anche le circostanze: un lavoratore che vive in Congo avrà meno possibilità di un lavoratore che vive in Lussemburgo, pur avendo la stessa voglia di lavorare. Inoltre, un altro criterio quanto mai importante è la famiglia nella quale si nasce: nascere in una famiglia che può garantire la possibilità di frequentare la scuola e le università vuole dire tanto sia a livello di formazione personale che in ambito lavorativo. Un ultimo fattore, spesso anche fonte di discriminazione, è il genere nel quale si nasce: nascere uomo vuole dire essere avvantaggiato rispetto a nascere donna.
Lo sviluppo del mercato va spesso a svantaggio della società che sta diventando sempre più individualista: ne sono un esempio gli Stati Uniti d’America, dove solo poche persone possono permettersi alcuni “privilegi” che dovrebbero essere un diritto di tutti, ad esempio l’accesso alla sanità.
Per risolvere questo crescente problema basterebbe che lo stato sociale garantisse a ogni individuo le stesse possibilità: ciò non vuol dire uguaglianza, ma equità. Se si dà un computer a un bambino che vive in Germania saprà come usarlo, ma se lo si dà ad un bambino del Malawi non saprà cosa farsene: questa è l’uguaglianza. L’equità è, invece, permettere a tutti i bambini, anche i più poveri ed emarginati, di studiare ed accedere alla sanità. Ciò è possibile solo dando un aiuto maggiore a chi ne ha più bisogno, anziché aiutare allo stesso modo un ricco e un povero. L’aiuto può avvenire in modi diversi, ma per iniziare il processo, dovrebbe provenire da un reddito di base. Questo reddito dovrebbe, quindi, venire erogato a tutti quelli che ne hanno bisogno, senza alcuna distinzione, in modo da dare loro un concreto sostegno, insieme alla possibilità di avere accesso alla sanità e all’istruzione ed a tutti i servizi, rendendo eguali tutti i cittadini del mondo.

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