Una cosa che ti ha colpito
I morti non si vendono. Albert Camus ci dona uno spiraglio da cui sbirciare uno dei frangenti forse più miseri della storia umana, un tremenda parentesi dittatoriale, descritta con una crudezza tanto delicata quanto spiazzante. Eppure per noi è impossibile non riconoscere quelle sfumature linguistiche adottate metaforicamente dall’autore e traslarle ai giorni nostri, in tempi duri di pandemia. Giornate non più scandite dalle ore, quanto dal numero dei morti. Numeri che provocano una profonda inquietudine, continuamente confrontati con grafici statistici e scale logaritmiche, e troppo spesso ci si dimentica che dietro ogni morto echeggia il pianto luttuoso di una madre, di un figlio, di un fratello, di un congiunto. Camus parla di dati alterati dalle radio, dai giornali, dai mezzi di comunicazione di massa che non fanno altro che giustificare proprio gli slanci individualistici della massa stessa, sacrificando il sentimento di benessere collettivo (che a quanto pare è realizzabile solo a discapito della felicità altrui, nonostante Rambert pensasse che fosse fatto della felicità di ognuno). La verità è che l’uomo è impotente e inerme dinanzi ad una sensazione mai provata, uno scenario mai visto, una melodia mai udita, un’esperienza mai vissuta: siamo tutti fratelli, solidali e disponibili nel momento del bisogno ma, di fatto, siamo sconosciuti. Fondamentalmente tutti uguali, condividiamo lo stesso destino: la morte. L’unica consolazione per i vivi è accompagnare nella maniera più tenera possibile il trapasso all’altro mondo; il solo gesto per soddisfare certe pulsioni, per soffocare il dolore, per combattere l’apatia. Se prima il lutto era vissuto nella forma più intima della propria dimensione personale, ignorato dal resto del mondo, adesso si tratta di qualcosa esposto in pubblica piazza, una sorta di invito ad un lamento comunitario, ad un’attenzione più particolare alla vita. Quando un flagello come la malattia interessa la parte di secolo in cui cerchi di arrancare vivendo nel modo più dignitoso, anche affidarti a Dio sembra l’unica scappatoia possibile e si ha la presunzione di pensare che con due preghiere, dopo una vita in bilico sulla sponda dell’ateismo, si possa allontanare qualunque “fastidio”, per poi scoprire quanto sia comunque necessario attendere, rinunciare, sacrificare. Non ho potuto fare a meno di pensare, mentre leggevo “La peste” ad un’immagine tanto forte quanto suggestiva, una sorta di parallelismo tra la scena in cui figure minute, omologate, inginocchiate ai piedi di padre Paneloux imploravano pietà per lo scempio a cui erano stati costretti a far fronte ed un’altra, in cui cadaveri semi-viventi ammassati nei lazzaretti, costretti ad abbracciare la morte riversi in giacigli isolanti ed isolati, uomini comuni e sognatori anelanti speranza di guarigione venivano comunque uccisi dal morbo. A mio parere è la morte la protagonista di questo libro, sempre composta e quieta in confronto alla tipica smania delle azioni umane, sempre pronta a salvare dalle sofferenze più estreme. È stato avvilente immaginare centinaia e centinaia di cadaveri gettati nelle fosse comuni, trasportati come merce scaduta su ambulanze anonime e asettiche.
È sconcertante pensare come anche l’ultimo atto d’amore venga negato ad un essere umano: è come concedere all’anima di rimanere latitante sulla Terra, privarla della pace agognata. La morte ci accomuna, ci rende profondamente simili, soffoca ogni stimolo al dolore ma non può cancellare i ricordi. Quelli appartengono ai vivi.
Una frase del libro da conservare
Forse il nostro amore c’era ancora, ma era semplicemente inutilizzabile, pesante da portare, inerte in noi, sterile come il delitto o la condanna. Ormai era solo una pazienza senza futuro e un’attesa ostinata.
Commento di Allegra Caccamo di La peste