Laboratorio, Oltre la notizia

Oltre la notizia- raccontare la violenza: reportage di guerra


Filippo S.

A. Gandiglio - Fano (PU)

È stato un incontro molto interessante e toccante, quello con Marta Serafini, giornalista del Corriere della Sera, inviata di guerra, esperta di terrorismo internazionale e autrice di libri e reportage. Serafini, infatti, con un linguaggio semplice ma chiaro e dettagliato, ha permesso a noi studenti di viaggiare nei luoghi di guerra e riflettere, con lei, su una serie di questioni molto importanti: il significato della guerra, della violenza e dell’orrore non solo nei teatri dei conflitti, ma per noi e per tutti coloro che vivono situazioni dove apparentemente c’è pace e benessere; il mestiere del giornalista e il ruolo dei media nel racconto dei conflitti internazionali; la responsabilità del lettore che vuole realmente comprendere il perché dei fatti.
Non ama definirsi inviata di guerra, Marta Serafini. Preferisce essere chiamata cronista. Un mestiere inconsueto per una donna (la prima infatti è stata Martha Gellhorn, durante la seconda guerra mondiale), che ha scelto da giovane per due ragioni: perché, come lei dice, ha sempre detestato i potenti e i prepotenti, e perché ha sempre creduto nell’importanza di andare sul campo, a osservare, raccogliere fonti, cercare di verificarle, e raccontarle.
Non è un’impresa facile. Primo perché in ogni scenario di guerra esiste la censura e in alcuni luoghi i giornalisti possono accedere solo embedded, ossia accompagnati dall’esercito. Secondo, perché si ha paura: della violenza, del pericolo, della morte, di qualcosa di invisibile come i terremoti o le radiazioni (a questo proposito, toccante il racconto del terremoto della Turchia o della centrale nucleare di Zaporizzja), ma la paura va ascoltata, perché è una consigliera e aiuta a mettersi in salvo. In più – e soprattutto – perché non bisogna limitarsi a descrivere la guerra, ma occorre raccontarla con le voci della popolazione civile, con la sensibilità e l’empatia di chi si trova in un luogo lontano dal suo paese di origine e ha la responsabilità di narrarlo in tutti i suoi aspetti.
È stata in tanti luoghi di dolore e di violenza, Serafini, a partire dal 2011: in Medio Oriente, nel Mediterraneo tra i rifugiati, in Siria, in Iraq, in Egitto per seguire il caso di Patrick Zaki, e da ultimo in Ucraina. Queste esperienze le hanno fatto capire che, pur se ogni guerra è un caso a sé, ci sono degli elementi comuni. Alcune dinamiche sono infatti le stesse e sembra assurdo, che pur dopo due guerre mondiali, si ripropongano uno scenario, un’estetica e una retorica simili: fili spinati, trincee, giovani mandati al fronte per obbligo e non per scelta, manipolazioni dell’informazione e dibattiti da stadio. In più, oggi, quasi senza tener conto di tutto il dolore e le difficoltà economiche, sociali e politiche delle guerre del Novecento, si ripropongono temi come la leva obbligatoria, gli armamenti o l’incentivo all’arruolamento professionale. Oltretutto, in ogni guerra, ci sono uomini, donne e bambini che soffrono, non solo per quello che stanno vivendo, ma per le conseguenze future.
Riflettere sulla guerra: questo è significativo per lei e soprattutto per noi.
Bisogna infatti, evitare di giudicare e di alimentare un dibattito avvelenato da tifoserie da stadio. È vero, infatti, che spesso ci sono aggressori e aggrediti nei conflitti, ma è anche vero che il bianco e nero, in guerra non sono visibili e che in ogni guerra la prima vittima è la verità. Sul campo e in mezzo alla gente, quello che si vede è il grigio della polvere e il rosso del sangue.
È importante capire – e questo è un messaggio che la Serafini ha ripetuto a gran voce nel suo reportage – che la guerra riguarda tutti, anche noi che non viviamo in paesi in guerra.  Non esiste la vera pace, in nessun luogo. Oltretutto, se in alcuni paesi sembra esserci benessere e stabilità, non è certo per merito o per imprese eccezionali. È una questione di fortuna e non c’è nessun popolo migliore di un altro. Chi guarda la guerra da esterno non può e non deve rimanere indifferente di fronte a paesi in conflitto, di fronte a immigrati fuggiti dai loro paesi per salvarsi dalla morte e dalla distruzione, di fronte a persone e popoli che chiedono aiuto.
Un buon giornalista ha la responsabilità di far capire questo ai propri lettori.
Essere giornalista significa, infatti, non solo descrivere i fatti di guerra, il contesto geopolitico, le cause, lo svolgimento, le conseguenze, ma anche raccontare le condizioni della popolazione, oggi e nel futuro. Perché ogni guerra è fatta di esseri umani e coinvolge tante persone innocenti.
Un buon giornalista deve saper narrare i conflitti del mondo e attualmente, non ci sono solo quelli dell’Ucraina o della striscia di Gaza, ma anche quelli dimenticati, come ad esempio, quello siriano che dura dal 2012.
Un buon racconto non si deve limitare al presente, ma deve coinvolgere le conseguenze di ogni guerra: quelle ferite fisiche e psicologiche che rimangono nel corpo e nell’animo delle persone, e le crisi economiche che tutti i conflitti causano. Di esempi ce ne sono molti: il numero delle vittime da mine nella zona al confine tra l’Iran e l’Irak nonostante la guerra sia finita nel 1988; i giovani mutilati al fronte, la fatica dei bambini ucraini ad andare a scuola a causa degli allarmi continui che i obbligano a nascondersi nei rifugi anti bombe (tema che la Serafini ha affrontato raccontando l’Ucraina); il tema dei convogli umanitari che portano cibo nei teatri di guerra e che, quando vengono colpiti (come la ONG di Gaza che in cui sono morti 7 operatori), mettono a rischio l’alimentazione di popolazioni a forte rischio di carestie; l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 con massacro di civili e blocco totale della striscia di Gaza.
Il racconto giornalistico deve saper coniugare la verità delle informazioni all’empatia: non si può raccontare dell’Afghanistan senza affrontare il tema delle bambine che non possono andare a scuola o delle ragazze che non possono accedere all’Università perché il governo talebano ha deciso per decreto di vietare alle donne l’ingresso all’istruzione.
Occorre mettersi nei panni degli altri e fare in modo che anche il lettore lo faccia. L’empatia di fronte alla guerra, al dolore e alla sofferenza, deve avere un impatto sulle vite di tutti. Non si può rimanere indifferenti di fronte alle famiglie che cercano di mandare i figli all’estero a studiare o di fronte ai migranti che arrivano in Europa attraverso viaggi pericolosi.
È questo il senso dell’informare e dell’informarsi. Capire e comprendere, infatti, sono il primo passo per ragionare su cosa si può fare per affrontare, risolvere o aiutare le altre persone, che siano i civili in Ucraina, in Russia, le donne che sfidano la dittatura e protestano al Cremlino, i palestinesi o gli africani che salgono sui barconi a rischio della vita, solo per darsi un futuro.
C’è però un modo di raccontare con empatia e responsabilità, e anche su questo la Serafini si è soffermata a lungo. È necessario, infatti, descrivere la violenza e la crudeltà con parole pacate e edulcorate, e bisogna farlo, non  per negare la verità, ma per evitare che la violenza generi altra violenza.
La descrizione e il racconto di guerra deve andare al di là dell’immagine, perché ogni immagine può essere manipolata e soprattutto fornisce solo un punto di vista. Molti media e social media diffondono immagini per distorcere la realtà, e l’Isis le usa a scopi di reclutamento, perché la violenza porta orrore e  genera pensieri radicali.
Le foto sono importanti solo come prova: ad esempio nell’assedio di Mariupol (scontro tra Russia e Ucraina nel febbraio- maggio 2022) hanno  permesso di far capire quali crimini di guerra la Russia stava compiendo sui civili; e a Gaza, dato che i giornalisti internazionali hanno un accesso limitato, sono preziose testimonianze dei fatti.
Alcuni giornalisti sono morti per aver tentato di documentare i reali scenari di guerra e Marta Serafini ricorda più volte la giornalista Marie Colvin, uccisa in Siria dal governo di Damasco a 56 anni, mentre stava documentando l’utilizzo a tappeto di armi sulla popolazione civile.
La responsabilità del giornalista non basta. La riflessione sul giornalismo apre anche una riflessione sulla responsabilità del lettore. Chi vuole bene informarsi, infatti, non può basarsi su una foto violenta, una slide, un reel su Instagram o un video su Tik Tok. Si può anche partire da lì, ma poi è necessario un percorso  di studio.
Un buon lettore deve “sedersi”, ripete stesso la Serafini e chiedersi i tanti perché di un fatto, di un episodio, di un conflitto. Ogni teatro di guerra ha una storia che merita di essere conosciuta (a questo proposito la giornalista cita la storia dell’Impero Ottomano, studiata in Ucraina; oppure l’episodio della caduta della diga di Nova Kakhovka, nel maggio 2023 che, oltre che causare vittime, problemi ambientali, logistici e civili, ha fatto emergere dalla sabbia gli scheletri di soldati della prima guerra mondiale e scoprire che quello era uno dei fronti della guerra). È importante anche scegliere da dove prendere l’informazione: il consiglio della Serafini è quello di scegliere media o social media che hanno giornalisti sul campo, e leggere più notizie sullo stesso argomento, meglio se scritte  in lingue diverse.
Conoscere la guerra, la cronaca di guerra, l’informazione corretta sulla guerra, non vuol dire, però, smettere di credere in un mondo migliore. Il reportage della Serafini si conclude, infatti, con un messaggio di speranza. La fiducia, per lei, nasce proprio dall’aver conosciuto, sul campo, persone meravigliose: durante l’assedio di Nikopol quando le persone erano rimaste senza acqua; quando in Afghanistan ha assistito al primo bimbo nato in uno scenario di guerra. La vita va avanti, nonostante i conflitti, e il sorriso e la forza delle persone che vivono momenti drammatici di dolore, sofferenza e morte, devono alimentare la nostra convinzione che un futuro diverso e migliore è possibile.  

 

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