La memoria può essere sfruttata e manipolata da uomini potenti per fini propagandistici, per nascondere la verità e persuadere delle proprie ideologie se pur distorte rispetto alla realtà.
Proprio su questa realtà si basa il libro “Il Re Ombra” di Maaza Mengiste, che discute la presenza coloniale italiana sul suolo etiope.
L’argomento è stato discusso nel dettaglio durante la conferenza online tenuta dall’evento Internazionale a Ferrara, che ha ospitato l’autrice, intervistata da Francesca Sibani.
A questo proposito, l’opera ruota attorno ai temi della fotografia e della resistenza delle donne etiope. La memoria da forma ad identità nazionali e personali, perciò i personaggi dei documenti fotografici di cui si è servita la scrittrice per scrivere il romanzo necessitavano di sprigionare le loro voci. Diverse fotografie vengono descritte, scongelando donne e uomini dalla posizione in cui erano stati immortalati per prendere il possesso della parola e rivelare la verità nascosta della guerra. La scrittrice racconta di essere venuta in possesso di una foto in cui soldati fascisti in Etiopia risiedono allegramente in una sala da pranzo, bevendo, cantando e ballando. Sullo sfondo dello scatto vi è una finestra: “Com’è la vita oltre il vetro?” si domanda Maaza nello scrivere il libro. Nonostante l’apparente bella vita, anche i fascisti celano nei pensieri le loro vite passate. Come possono brave persone, compiere azioni terribili e in seguito giustificarsi? Cosa pensano di loro stessi? Le foto non sono solo ombre e luci, ma sono anche emozioni e, soprattutto, parole. Ettore, il fotografo del romanzo, è un ebreo che nel 1937 applica da soldato la prima legge a tutela della razza promossa dal regime fascista a discriminazione degli africani e a salvaguardia degli italiani. La legge promosse una forma di apartheid prima ancora che venisse legalizzata, sostiene l’autrice. Nel 1938, però, Ettore viene raffigurato come il nemico ed è costretto a lasciare l’Africa per essere deportato in un campo di concentramento nell’Est Europa in seguito alla promulgazione delle leggi razziali a discapito degli ebrei.
L’intero romanzo di Mengiste si fa portatore delle voci di generazioni, non solo dei deportati, ma di un coro di donne da sempre zittite e ridotte al silenzio.
“La mia storia” afferma l’autrice “è raccontata dall’angolazione dei vincitori: donne che hanno il coraggio di risvegliarsi e lottare per sé stesse”.
Anche la protagonista, Hirut, si esprimerebbe contro la violenza sessuale, se fosse nata al giorno d’oggi, e sarebbe una ribelle, continuando ad essere “un soldato a modo suo”.
Verso la fine dell’intervista, Maaza Mangiste espone la propria esperienza durante la ricerca di documentazione, che l’ha portata a contatto con persone aperte al dialogo e alla condivisione di fonti, ma anche a ricevere porte chiuse. Non sono stati pochi, infatti, coloro che l’hanno allontanata con vergogna, disagio o anche rabbia.
La mediatrice mette in luce le crudeltà che si nascondono dietro la retorica del colonizzatore gentile, “poi non così cattivo” .
L’autrice afferma che per giustificare le violenze della guerra spesso si delineino azioni positive, in realtà solo miti occidentali, per occultare le barbarie dei colonizzatori. Evidentemente, il passato coloniale punge ancora sul vivo la coscienza di molti italiani, ma la guerra, in Etiopia, è ancora in corso.
“L’Etiopia sembra non ricordarsi ciò che ha vissuto in passato”, afferma la scrittrice, “e alcune voci sono stati escluse, non rappresentate sufficientemente nel governo”. Ancora, al potere si trova la figura dell’uomo forte fiancheggiato da un governo esclusivo, che desidera rimuovere le diversità religiose, linguistiche e sociali. C’è quindi in corso un tentativo di pulizia etnica per costruire un’unica identità nazionale tramite una guerra non definita come tale.