Nella giornata di venerdì 24 settembre presso il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano della Shoah – MEIS di Ferrara, in occasione della Festa del Libro Ebraico 2021, si è svolta l’intervista a Edith Bruck, collegata da remoto, moderata da Amedeo Spagnoletto, Direttore del MEIS, e Anna Quarzi, Presidente dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara. Edith Bruck è una scrittrice, poetessa, traduttrice, regista e testimone della Shoah ungherese naturalizzata italiana e tra le altre opere ha scritto Il pane perduto, vincitore del Premio Strega Giovani 2021 e del Premio Letterario Viareggio-Rèpaci 2021.
Il pane perduto è un romanzo memorialistico autobiografico in cui l’autrice narra la sua infanzia in una piccola comunità aggregata in Ungheria, le prime discriminazioni da parte dei compagni di scuola a causa delle leggi razziali contro gli ebrei, il viaggio in treno verso i campi di concentramento alla giovane età di tredici anni, la lotta per la sopravvivenza insieme alla sorella Judit dopo aver visto morire i genitori e infine il lungo peregrinare alla ricerca di un luogo in cui vivere dopo la liberazione nel 1945. Nel corso della narrazione avviene una crescita della protagonista: l’ingenua bambina Ditke diventa il numero 11152 nei campi di concentramento e infine una donna consapevole e un’importante voce di denuncia.
La conversazione è iniziata, come il romanzo, con il racconto della “vita prima della bufera” a cui Edith è tuttora molto legata perché nonostante le difficoltà era ancora insieme alla sua famiglia nella sua casa natale. I suoi genitori avevano due modi completamente diversi di vivere la religione e la tradizione ebraica: il padre era sfiduciato e si vergognava della sua povertà, al contrario la madre si confidava molto con Dio e gli affidava tutte le sue speranze.
Parlando della sua infanzia la Bruck adopera la terza persona che improvvisamente diventa prima nel momento in cui i gendarmi ungheresi trascinano lei e la sua famiglia fuori dalla loro abitazione. Questa cesura simboleggia una rottura tra la sua prima e lontanissima ‘vita’, che si è conclusa con la chiusura della porta di casa, e le successive. Ha fatto questa scelta volutamente perché il racconto in terza persona è più facile e la faceva sentire più libera e distaccata da quella vita che non le apparteneva più.
“Noi siamo i figli di ieri e domani saranno i figli di oggi”. La scrittrice sente l’esigenza di raccontare il suo vissuto ai giovani assetati di parole. “Il tempo è uno” e gli orrori del passato non devono più essere ripetuti: “Testimoniando, la mia vita e la mia salvezza non sono state inutili”. Nonostante la fatica di rievocare ogni volta le sue esperienze passate, Edith non vuole rifiutarsi di condividerle, perché sente il dovere morale, dovuto alla sua completa dedizione verso un mondo migliore, di dire sempre di sì.
Consiglia agli insegnanti di spiegare la Storia agli studenti per far capire loro l’origine dei razzismi e delle disuguaglianze.
Parlando della situazione attuale l’autrice è amareggiata perché ci si nasconde sempre dietro le parole e, anche in politica, non si dice più la verità: più si urla e più si è ascoltati, le masse si sentono forti applaudendo cose che non capiscono dimostrando così una grande ignoranza. In lei non è mai nato odio, ma solo pietà verso i giovani soldati che maltrattavano lei e le altre prigioniere perché fondamentalmente erano delle marionette che eseguivano gli ordini senza conoscere.
Dopo la Liberazione i sopravvissuti non sono stati né accolti né ascoltati, ma costretti a vivere con la ‘bocca chiusa’ perché nessuno voleva sapere per poter cancellare al più presto il ricordo della guerra. Per Edith questo silenzio era insopportabile e ha quindi iniziato a scrivere perché non si poteva non raccontare. Quando è poi arrivata a Napoli, dopo un lungo peregrinare, si è sentita accolta e ha capito che sarebbe finalmente iniziata una vita degna di questo nome. Con la lingua italiana ha quindi trovato un rifugio e una difesa dai brutti ricordi, sentendosi così più libera di esprimersi rispetto alla lingua materna.
Ascoltare le parole di una figura così straordinaria, una delle poche sopravvissute che ha trovato il coraggio e la forza di testimoniare non solo i campi di concentramento ma anche e soprattutto la riconquista della vita e di un’identità, è stata un’esperienza molto forte e toccante oltre che formativa. Questi incontri hanno il compito di far conoscere questa immane tragedia alle nuove generazioni, che avranno il compito fondamentale di diventarne i nuovi testimoni indiretti una volta che non ci sarà più nessuno a raccontarla in prima persona.
Vogliamo concludere con una citazione di Edith Bruck che racchiude il senso della sua attività da scrittrice e poetessa: “Non voglio e non posso dimenticare perché la memoria è vita”.