Dalle storie di migranti, lo stereotipo esige il racconto di un volo cieco, disperato, di un viaggio privo di promesse verso un luogo lontano dalla sofferenza, dalla guerra. Vuole storie di un dolore che si scioglie una volta avvistata l’agognata meta, dove liberarsi del passato e formare una nuova identità. Scrivendo Il giardino dei frangipani, Laila Wadia (narrastorie nata a Bombay nel 1966) non si limita a questa narrazione, ma racconta le mille sfaccettature dell’immigrazione.
Indiana lei stessa, Wadia racconta il ritorno di Kumari nel suo paese d’origine, che aveva lasciato da orfana e dove torna dopo essere emigrata in Italia e aver trovato fortuna nel settore della moda.
“Kumari” deriva dalla mitologia hindu, uno dei nove avatar della Dea Madre Durgā, la forza creatrice femminile. Il nome soltanto, quindi, porta l’attenzione su uno dei temi centrali del libro: la condizione femminile in India. Da un lato l’idea della donna è divinizzata in quanto Madre del creato; dall’altra la sua figura viene demonizzata, vista come un peso per la famiglia e nient’altro. «Avere una figlia femmina è come innaffiare il giardino del vicino» recita infatti un proverbio indiano.
Kumari, come Wadia, cresce nell’India socialista: un paese povero ma “dignitoso”, dove non c’è ancora l’estremo divario tra la povertà assoluta e lo sfarzo sfrenato portato dal capitalismo. Lo scollamento sentito nei confronti della patria, che la protagonista ha ritrovato trasformata nel linguaggio e nello stile di vita, è un’esperienza comune a tutti i coloro che ritornano e non riescono a far combaciare l’immagine della città natale richiamata dalla nostalgia a ciò che hanno davanti agli occhi.
Fuori luogo negli ambienti poveri in cui era cresciuta e a disagio nello sfarzo in cui la sua nuova ricchezza le permette di vivere, Kumari è condannata a vivere due realtà inconciliabili: la sua identità indiana e gli strati di cultura italiana che ha assimilato durante gli anni passati in Europa.
La lingua del romanzo è costruita proprio intorno a questa mescolanza di culture. «Si è trattato di una grande sfida di interpretazione, — dice Ralph Pacinotti, traduttore — perché Laila ha uno stile complesso, un inglese ibridato in cui esistono tante realtà diverse. Un minestrone,» aggiunge sorridendo. Wadia usa l’inglese come lingua principale, sapientemente trasformato con influenze hindi, unendo a queste la dimensione linguistica italiana. Ne emerge un rapporto con le lingue molto personale: da un lato l’inglese è sua “matrigna”, imposta in quanto residuo del passato colonialista; dall’altro l’italiano è lingua “sorella”, scelta di espressione autonoma, libera. Un’altra sfaccettatura dell’anima sdoppiata di coloro che si ritrovano in mezzo a due culture.