Cronache, Internazionale a Ferrara 2025

La violenza, un vicolo cieco


Sara Pancaldi e Gabriele Strambi

L.Ariosto e V.Alfieri - Ferrara e Torino

L’attuale democrazia israeliana non è il risultato di un lento declino, ma affonda le sue radici nel nazionalismo ottocentesco. L’idea dello stato di Israele nasce nel XIX secolo contestualmente alla nascita del sionismo, movimento nazionale ebraico che proponeva il ritorno in Palestina degli ebrei, dispersi a causa della diaspora.

Questa questione è stata oggetto di dibattito, nell’incontro, moderato da Giuliano Milani, che si è svolto il 4 ottobre nel cortile del Castello di Ferrara, a cura del giornalista israeliano Meron Rapoport e delle storiche Anna Foa e Anna Momigliano.

Quest’ultima riferisce che, nonostante Israele si dichiari fin dal 1948 (anno della sua fondazione) una democrazia, alcuni storici non concordano su questa posizione. Infatti la politica israeliana a partire dalla Nakba (l’espulsione forzata dei palestinesi dalle loro terre) ha tutte le caratteristiche di un regime suprematista.

Negli anni successivi al 1967, anche altre occupazioni, prima temporanee e poi permanenti, sono state perpetrate dall’esercito israeliano e hanno portato alla coesistenza, in una stessa terra, di due popoli sottoposti a leggi differenti. Mentre gli occupanti godevano degli stessi diritti di tutti gli altri cittadini israeliani, i palestinesi invece dovevano sottostare al diritto militare, imposto da chi si era insidiato con la violenza nella loro patria: “Questa è la definizione di uno stato antidemocratico dove vige una forma di apartheid”.

Queste condizioni insopportabili hanno alimentato, nel popolo palestinese, una grande frustrazione che ha trovato il suo apice nei tragici eventi del 7 ottobre 2023 per opera del gruppo terroristico di Hamas. Rapoport testimonia la paura che pervade il popolo ebraico in seguito a questi attentati e che spinge a giustificare, in un primo momento, la violenta politica vendicatrice del governo di Netanyahu, da cui anche i cittadini arruolati come riserve traevano un grande vantaggio economico. Quest’ultimo, sulla scia di Mosé, si autodefinisce come il protettore della storia ebraica e il predestinato al governo di Israele. Per svolgere il suo compito al meglio, egli ha avviato un processo fallimentare di pulizia etnica, da lui definito come “migrazione volontaria”, che ha causato l’isolamento progressivo del suo governo, da parte in un primo momento delle potenze estere e successivamente dello stesso popolo israeliano.

”La via della distruzione risulta dunque un vicolo cieco”. L’unica possibile soluzione, seppur momentanea, risulta essere la mediazione di una super potenza estera, gli Stati Uniti, in un tentativo di accordo tra Hamas e Netanyahu.

In quest’ottica il giornalista israeliano aderisce al movimento Land for all che propone una confederazione di due Stati con istituzioni comuni e frontiere aperte al fine di una convivenza pacifica, evitando ulteriori spargimenti di sangue.

In ogni caso, anche con la fine della guerra che tutti auspichiamo “dopo questo genocidio a Gaza non si può festeggiare in nessun modo”.

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