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“La vita è come un’eco: se non ti piace quello che ti rimanda, devi cambiare il messaggio che invii.” (James Joyce).
“La smetta di frequentare il passato, cerchi di frequentare il futuro” (Sostiene Pereira, Antonio Tabucchi)
In queste ultime settimane ho avuto l’occasione di conoscere e approfondire due romanzi che hanno segnato con le loro parole i lettori del Novecento, “Gente di Berlino” di James Joyce e “Sostiene Pereira” di Tabucchi.
Nonostante siano romanzi molto diversi a livello contenutistico, stilistico e inquadramento storico, non ho potuto non osservare il fondamentale filo che lega così profondamente questi due romanzi: narrano la vita di uomini paralizzati, intrappolati in una vuota e sterile esistenza che in seguito ad un evento, ad un incontro, a una percezione, vengono travolti da una consapevolezza chiarificatrice e da un desiderio, che si tramuta presto in un bisogno impaziente, di cambiare la propria vita.
Gli ordinari Dubliners di Joyce, paralizzati, passivi e incapaci di imprimere una svolta nella propria esistenza sono come Pereira, che all’inizio del romanzo, è il ritratto di un uomo comune, di un ex-giornalista di cronaca, che è intrappolato in un felice e idealizzato passato. Egli rimane ancorato al ricordo della moglie scomparsa, all’idea di un Portogallo libero e ad una Europa molto lontana da quella odierna, che secondo lo stesso giornalista, “puzza di morte”. Pereira è un uomo che vive d’inerzia, che si lascia trascinare dagli eventi che lo circondano, senza avere la pretesa o l’arroganza di causarli: non si espone alla vista delle ingiustizie sociali e politiche, non si esprime sulla guerra, rinuncia senza smodata sofferenza alla sua libertà creativa, di parola, matrici del vero e onesto giornalismo.
Pereira è un personaggio bloccato nella monotonia di un’esistenza scandita da limonate, da necrologi e omelette alle erbe aromatiche del solito Café Orquidea in cui pranza.
E, come nel romanzo di Joyce, questa paralisi sembrerebbe perpetua, senza fine. E’ all’apice della linearità, tuttavia, che l’esistenza viene stravolta da un evento, una impressione, un ricordo, che le conferisce un colore, una sfumatura completamente differente: l’incontro con due giovani innamorati, romantici, pieni di sogni, trasudanti di ideali, di ambizioni, scarsi di timori. Per il giornalista è come guardarsi ad uno specchio che lo ringiovanisce di trent’anni, ma che in realtà lo sta catapultando verso un inaspettato avvenire. Il rapporto con Monteiro Rossi, che sente sia come la lontana immagine di se stesso, e, altre volte, come il figlio desiderato mai avuto, lo porta a riflettere sulla propria esistenza, passata e presente, sul suo lavoro di giornalista ormai privato della libertà di stampa e sul ruolo che egli stesso vuole interpretare sul palcoscenico della vita.
E’ un percorso di consapevolezza interiore che, come nel romanzo di Joyce, porta i protagonisti ad affrontare moltissimi dubbi, esitazioni, che scatena oceani di tormenti interiori.
Dinnanzi al cambiamento, all’abbattimento di costrutti sociali, di aspettative familiari, i protagonisti vengono travolti da un senso di smarrimento che mette in luce la loro debolezza e insicurezza interiore.
Come nella storia di “Evelyn” (facente parte della seconda sezione della “Gente di Dublino”), la protagonista di trova di fronte alla prospettiva di lasciare finalmente la propria casa e un’esistenza infelice, per creare una nuova vita al di fuori dell’Irlanda, per creare una nuova versione di sè; così Pereira, si trova a far emergere un nuovo “io egemone”, un desiderio di esistere e non solo sopravvivere alla quotidianità. Ed è proprio in questo stallo, in questa soglia che i due romanzi sembrano prendere strade differenti. In Joyce la presa di consapevolezza da parte dei personaggi della propria paralisi, fisica e morale, porta a una fuga, a un tentativo di riscatto che è tuttavia inconcludente, fallimentare. Eveline, nonostante l’esempio di sofferenza e infelicità della madre, sceglie di rimanere a Dublino, incapace di cambiare la propria vita, e rimanendo bloccata in una tela senza fine di disperazione e rimpianto.
Tabucchi, invece, ci delinea l’evoluzione di un personaggio, che, seppur con nostalgia “ha bisogno di elaborare il lutto, ha bisogno di dire addio alla sua vita passata”, a un se stesso ormai diverso, per dare spazio “al suo nuovo io egemone, […] che ha bisogno di nascere, ha bisogno di affermarsi”.
Dall’uomo ancorato al passato, “piantato a terra come una zeppa”, incapace di reagire ai disordini del presente, ci ritroviamo alla fine del romanzo di fronte ad un uomo coraggioso, che lotta con i propri strumenti per ciò che crede sia una terribile ingiustizia (la morte di Monteiro Rossi) e che, dopo una vita di cronaca nera e necrologi, impara ad abbracciare, a parere mio, lo spirito del suo giovane collaboratore: “gridano viva la muerte, e io di morte non so scrivere, a me piace la vita”