Tutto è vanità: così esordisce il Qohelet, libro biblico oggetto di numerose interpretazioni. Una di queste è stata fatta da Gustavo Zagrebelsky, celebre giurista ospite al Salone del Libro per presentare il suo ultimo saggio Qohelet. La domanda dell’esistenza. In un mondo dominato ormai dalle scienze e dalla tecnologia, l’autore evidenzia ciò che rende immortali i classici: ovvero il poter dare sempre una risposta alle domande che da sempre tormentano l’uomo: che senso ha la vita? Qual è il suo rapporto con la morte? Il Qohelet in questo senso rappresenta il pessimismo più totale, poiché la morte è ineluttabile e rende la vita vana. A conseguenza di ciò, questo testo biblico indica una serie di palliativi che possano dare conforto agli uomini, che Zagrebelsky riassume scherzosamente con un’espressione dialettale piemontese “mange, bevie, ciulè”. Un pessimismo non condiviso dal giurista torinese, che nel suo libro propone una chiave di lettura da lui definita “consolatoria e responsabilizzante”, il fatto cioè che ci sia un qualcuno o un qualcosa che conservi le tracce di ciò che si è stati in vita. Ciò che è drammatico secondo Zagrebelsky, non è tanto l’inevitabilità della morte, quanto il non lasciare segno consciamente della nostra esistenza. L’autore infatti osserva come sia privilegio di pochi essere ricordati dalle generazioni successive, invece per molti il destino è cadere nell’oblio.
Una conferenza apparentemente macabra e pessimista, è stata resa invece molto piacevole dalla simpatia e dall’eloquio di Zagrebelsky che ci ha offerto spunti di riflessioni su tematiche “tipicamente umane”.