Domenica 17 ottobre il Salone del Libro ha ospitato Stuart Turton, scrittore britannico de Le sette morti di Evelyn Hardcastle (prossimamente in uscita sotto-forma di serie TV Netflix) e Il diavolo e l’acqua scura, entrambi best-sellers editi in Italia da Neri Pozza.
“Scrivere è un’attività noiosa” ha esordito l’autore tra le risate del pubblico, divertito dal suo genuino savoir-faire. “Mi siedo alla scrivania otto ore al giorno, davanti a uno schermo, e non c’è niente di divertente in questo. Il bello di un mestiere simile è poter viaggiare e incontrare i lettori, tutto qui. Quando scrivo, ho bisogno d’intrattenermi perché sono il primo giudice di me stesso. Non ho più voglia di descrivere quel determinato scenario? Significa che non funzionava, e passo oltre. Non sono un tipo che si emoziona troppo, né che si deprime troppo, quindi devo sconfiggere la noia con le mie storie, capite?”.
Non è un caso, infatti, che i romanzi di Turton siano un mix di generi (crime, mystery, thriller semi-storici) e abbiano preso spunto sia dalla letteratura gotica (ad esempio, Shirley Jackson e Franz Kafka), sia dai maestri del giallo inglese (in particolare, Agatha Christie e Arthur Conan Doyle). “Volevo creare qualcosa di potente quanto Hercule Poirot, Miss Jane Marple e John H. Watson: pieno di emozioni contrastanti e un omicidio da risolvere, dove sarebbe stato necessario acchiappare l’assassino o risolvere un enigma. I miei testi sarebbero dovuti essere un gioco formato da trame complesse e molteplici cliffhangers, in cui ciascun personaggio si sarebbe potuto trasformare in un potenziale protagonista. Mi lascio ispirare dalle atmosfere e dagli umori che gli altri scrittori sono in grado di tinteggiare, ma spesso me ne accorgo a opera compiuta; si tratta di un processo inconscio”.
Ciò che Turton ha voluto ribadire in più occasioni è che per lui diventa essenziale rispondere a ogni quesito iniziale, così da non deludere le aspettative di chi legge, sebbene “il finale non sarà mai gratificante per tutti”. Dopo averci riflettuto, ha aggiunto con un sorriso: “Effettivamente, detesto l’idea che un lettore resti indifferente dopo aver chiuso il volume, dimenticandoselo l’indomani. Mi piacerebbe essere ricordato, anche a costo di essere detestato. Ecco perché punto a farlo sentire intelligente: se all’epilogo le dinamiche del romanzo gli saranno chiare e verranno svelati i moventi del colpevole, il lettore si sentirà appagato”.
Curati fin nei minimi dettagli, i lavori di Turton presentano aspetti ludici e denunce sociali in un equilibrio sempre precario, eppure estremamente funzionale. “Arrivo da una famiglia proletaria. In paese, erano convinti che presto avrei lasciato la scuola per andare a lavorare in fabbrica; la mia carriera è tuttora quasi un impensabile miracolo per la mia famiglia. Oggi, nel Regno Unito, le disuguaglianze sono normalizzate, i bambini crescono già con le convinzioni limitanti di un meccanismo tossico. In quel che scrivo cerco di far notare quanto sia stupido il classismo“.
Un uomo dalle mille sfaccettature, una scrittura dai mille risvolti, un incontro dalle mille occasioni di crescita e riflessione personali.