Una cosa che ti ha colpito
I temi trattati, le immagini offerte…a tratti sembra di rivivere lo sgomento della rapida evoluzione del covid-19 in una pandemia.
Un’altra cosa che ti ha colpito
Camus è riuscito a descrivere il dolore e la frustrazione della reclusione, il peso della solitudine in modo così realistico che un ragazzo come me che ha vissuto in prima persona l’esperienza riesce ad immedesimarsi appieno nei personaggi di questo libro.
Una frase del libro da conservare
“L’abitudine alla disperazione è peggiore della disperazione stessa. Prima coloro che erano separati non erano davvero infelici, c’era nella loro sofferenza una luce, che ora si era spenta”
“La peste” è un romanzo scritto da Albert Camus nel 1947. Il tema principale dell’opera è un’epidemia di peste che – nella fantasia dell’artista – colpì la città di Orano negli anni Quaranta.
Come è noto, l’immagine del male che Camus ci vuole trasmettere con questo romanzo rappresenta metaforicamente il totalitarismo appena sconfitto nella Seconda Guerra Mondiale. Il nazismo e il fascismo erano infatti caratterizzati da oppressione e censura, paura e morte, tutti elementi che leggendo questo libro si possono avvertire associati alla peste.
Leggere oggi quest’opera è impressionante: i temi trattati, le immagini offerte…a tratti sembra di rivivere lo sgomento della rapida evoluzione del covid-19 in una pandemia. Camus è riuscito a descrivere il dolore e la frustrazione della reclusione, il peso della solitudine in modo così dettagliato e realistico che un ragazzo come me che ha vissuto in prima persona questa pandemia riesce ad immedesimarsi appieno nei personaggi di questo libro.
Il protagonista della storia è il dottor Rieux, colui che avrà il compito di gestire le cure della popolazione, ed è attraverso le sue annotazioni che possiamo capire cosa pensassero gli abitanti della città, subito isolata non appena l’allarme viene lanciato: “Ma dopo che furono chiuse le porte, tutti si accorsero di essere sulla stessa barca e di doversene fare una ragione. Così, per esempio, un sentimento privato quale la separazione da una persona amata divenne improvvisamente, fin dalle prime settimane, quello di un’intera popolazione e, insieme alla paura, il principale motivo di sofferenza di quel periodo di esilio”.
Questa frase descrive perfettamente ciò che anche noi abbiamo passato quando la diffusione del virus divenne innegabile: da un giorno all’altro fummo costretti a rinunciare alle nostre abitudini, agli amici, alla libertà. La solitudine era pesante e non poter uscire aggravava la situazione già dura di per sé. La paura che provavamo nel pensare che i nostri cari, soprattutto i più anziani, potessero essere contagiati, la sensazione di impotenza nei confronti di questo virus erano condivisi da tutti. Non restava che rassegnarsi e affidarsi alla scienza e al buon senso, nostro e altrui.
Nel romanzo l’evoluzione dell’epidemia e il cambiamento dell’atteggiamento degli abitanti vengono descritti passo passo: dopo le prime settimane, le persone si adattarono alla nuova situazione, dato che si trattava dell’unica cosa che era possibile fare. Camus attraverso Rieux scrive: “L’abitudine alla disperazione è peggiore della disperazione stessa. Prima coloro che erano separati non erano davvero infelici, c’era nella loro sofferenza una luce, che ora si era spenta”. Mi ha colpito leggere questa osservazione, perché è proprio questo ciò che accadde quando ci accorgemmo che la situazione era più grave del previsto e la speranza che le cose si sarebbero sistemate rapidamente si spense in noi.
Un ultimo dettaglio del romanzo che mi ricorda particolarmente il primo periodo del covid è come Camus descrive la città: le strade deserte, i negozi chiusi e ovunque un silenzio assordante che veniva raramente interrotto dalle urla di qualche ubriaco. Si direbbe un’esagerazione letteraria, ma al tempo della quarantena anche qui per le vie non c’erano macchine o persone a passeggio, e nei paesi di solito molto rumorosi – come il mio – non si sentivano neppure i tipici schiamazzi degli anziani che giocavano a briscola al bar.
La morale che secondo me si deve trarre da questa lettura è che nella storia gli avvenimenti si ripetono sempre, ed è per questo che vale la pena vivere appieno ogni giorno della nostra vita perché non si sa mai quando ci si troverà a dover rinunciare alla propria libertà, ai propri cari e alle cose che ci fanno stare bene.