Una cosa che ti ha colpito
Inevitabilmente e tutto – ad un tratto – sia i protagonisti del romanzo di Camus, che noi, abbiamo dovuto abituarci alla morte: progressivamente ha preso il sopravvento e ci ha messo di fronte a una vera e propria strage. Come nel romanzo, così nella nostra realtà, ogni giorno la lista dei decessi aumentava, le persone care mancavano e contemporaneamente si diffondeva tra la gente un senso di stanchezza e di intolleranza. Ecco allora che mi pare più che comprensibile il rifiuto di dare importanza alla Festa dei Morti quando, dopo mesi e mesi, proprio la morte è stata l’unica ad avere il sopravvento, a vincere. Era la sola ad avere potere, ad avere tutti in pugno, ci ha abituati a convivere con lei fino all’esasperazione, fino al rifiuto della “sua” festività, per ricordare che – oltre alla morte – c’è la vita e soprattutto per non spegnere la speranza di poter uscire finalmente.
Una frase del libro da conservare
“Era il giorno in cui tutti tentavano di risarcire il defunto dell’isolamento e dell’oblio in cui era stato lasciato per lunghi mesi. Ma quell’anno nessuno voleva più pensare ai morti. Tutti, per l’appunto, ci pensavano già troppo. E non era più tempo per tornare a loro con un po’ di rimorso e molta malinconia. Non erano più i negletti al cui cospetto si viene a giustificarsi un giorno all’anno. Erano gli intrusi che chiunque voleva dimenticare. Sicché, in una certa maniera, quell’anno la Festa dei Morti fu ignorata”.
Nel passo del libro che ho scelto per il mio commento, viene messo in luce come l’isolamento e la chiusura durante una epidemia non possano essere solo e necessariamente una chiusura fisica come quella della quarantena o quella sociale, ma come possano prendere una piega più psicologica, manifestarsi con una chiusura mentale e, come accade nella Peste, in rifiuti categorici (ma forse anche necessari).