Sono rimasto molto colpito da come Camus nella sua opera La peste sia riuscito a intuire certe verità che solo oggi, in questo periodo di pandemia, possiamo comprendere appieno. Immaginando un’epidemia di peste, è stato in grado di ritrarre con grande maestria gli atteggiamenti e i comportamenti della società afflitta dal flagello.
In particolare, mi ha fatto riflettere molto questa frase:
“Spaventati sì, ma non disperati, non erano ancora giunti al momento in cui avrebbero guardato alla peste come la forma stessa della loro vita, dimenticando l’esistenza che avevano condotto prima della sua apparizione” (pagina 120).
È interessante, infatti, pensare a come la nostra vita sia cambiata a causa del virus e a come ci siamo ritrovati in una situazione così lontana dalla nostra “precedente vita”. È cambiato tutto così in fretta, che, abituati ormai alla situazione, sembra che questa sia sempre stata la nostra vita e che la nostra “precedente vita” sia solo un lontano ricordo. Ormai, certi atteggiamenti si sono così radicati in noi, che comportamenti che prima ritenevamo assurdi oggi sono all’ordine del giorno e sono entrati a far parte della nostra quotidianità. Per esempio, prima della pandemia mai avrei pensato che una mascherina sarebbe potuta diventare così indispensabile, tant’è che nessuno ormai esce più di casa senza averne una.
Credo che portare la mascherina sia anche un fatto psicologico: in alcune situazioni, senza mascherina mi sento inadeguato, a disagio, non solo perché rappresenta ormai la normalità indossarla, ma anche perché con la mascherina ci si sente più al sicuro o almeno si ha la convinzione di aver fatto il possibile per evitare di contagiarsi. Viene automatico indossare la mascherina, quando si prendono i mezzi pubblici o si entra in luoghi chiusi. Perciò, credo che quando la pandemia sarà finita, molte persone troveranno difficoltà ad abbandonare questa abitudine o almeno io troverò difficoltà a farlo.
Questa situazione particolare ha portato i filosofi contemporanei, tra cui Umberto Curi, a riflettere sulla gestione della pandemia. Secondo il filosofo, nella videolezione Riflessioni sulla pandemia, a mancare durante l’emergenza pandemica è stata la lucidità nel gestire e nell’analizzare la situazione in corso. Ciò ha portato all’errore di concepire la vita nella sua accezione biologica (quella che gli antichi Greci chiamavano zoè), secondo la quale l’uomo non è altro che un coinquilino degli altri esseri viventi sulla Terra, che compie un ciclo vitale come lo fanno animali e piante. Secondo Curi, invece, la vita si sarebbe dovuta concepire nel senso più ampio (bios), che vede l’essere umano al centro di rapporti sociali, capace di ragionare, capace di vivere e dare un senso alla sua vita.
“Si dice che il Covid-19 stia portando via la vita, ma si dimentica che il Covid-19 ha cancellato la morte”. Un altro tema su cui riflette Umberto Curi è il tema della morte. Non è irrilevante la modalità in cui si muore: i medici cercano di strappare alla morte il maggior numero di malati Covid, ma a quale prezzo? Chi va in terapia intensiva molte volte va incontro a una morte non degna. La sacralità della morte viene profanata, poiché il malato è isolato e non può vedere i suoi cari prima di morire. Inoltre, essendo la morte parte della vita, è necessario prendersene cura, come ci si prende cura della nascita.
In definitiva, la pandemia ha ridotto a pura zoè la vita e ha profanato la sacralità della morte, sacralità protetta sin dall’antichità.
In La peste, Camus riprende il concetto di dare un senso alla vita e alla malattia come troviamo nel seguente passo:
“In fondo, è stupido vivere soltanto nella peste. Un uomo deve battersi per le vittime, certo. Se però poi smette di amare tutto, a che serve che si batta?” (pag. 281).
Perdendo l’amore e il sentimento, gli abitanti di Orano ricadono in una vita senza senso, monotona e fredda. Il dottor Rieux, non sentendosi più toccare dalla morte e dalla sofferenza dei malati di peste, conduce una vita piatta e ripetitiva, anche se fin da subito è chiaro quale sia il suo obiettivo: salvare il maggior numero di persone. La sua vita fin da subito, quindi, ha un senso, seppur egli stesso arriva ad analizzarlo e metterlo in discussione, durante il culmine dell’epidemia.
Tra i personaggi del romanzo c’è anche chi, come Rambert, un senso alla vita lo ha dato solo grazie all’epidemia, in quanto decide di non fuggire e aiutare Rieux e Tarrou a combattere la peste. Anche se la sua vita precedente all’epidemia possa essere intesa come bios, poiché era inserito in un contesto sociale, durante l’epidemia ricade in un primo momento nella zoè, poiché è dominato dall’istinto di fuggire e tornare a casa. Sentendosi poi parte della comunità di Orano, matura come personaggio, o meglio “rinasce”. Dà, infatti, uno scopo, un senso alla sua vita: aiutare la (ormai) sua comunità.
Infine, c’è padre Paneloux, che ha sempre attribuito a Dio il senso della vita e che solo alla fine ha dubitato delle sue certezze. A tal proposito, Camus introduce il tema filosofico dell’origine del male. Padre Paneloux in un primo momento sostiene che la peste (il male) sia solamente una punizione di Dio verso i peccatori di Orano. Però, torna poi sulle sue convinzioni quando assiste alla sofferenza e alla morte di un bambino. Arriva così a domandarsi come sia possibile che Dio abbia potuto lasciare che il male si impossessasse di un bambino innocente. Esiste quindi questa entità? Qualora esistesse, si interessa degli uomini? Così, nella sua ultima predica prima di morire smentisce ciò che aveva affermato durante la prima. Infatti, afferma che la peste non ha effettivamente una spiegazione, ma bisogna combatterla, andando contro Dio. Alla fine, per ironia della sorte, muore di peste.