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Nella Lisbona degli anni 30’, un ex giornalista di cronaca nera, vedovo e cardiopatico, si trova a dirigere la pagina culturale di un piccolo ma promettente giornale, il “Lisboa”. E’ un contesto carico di tensione: la guerra civile in Spagna, il fascismo in Italia e il nazismo in Germania non lasciano presagire nulla di buono. In questa atmosfera c’era chi si batteva e chi in silenzio si sottometteva; Pereira invece non faceva nè l’uno nè l’altro, piuttosto rifletteva: “rifletteva sulla morte”(cap 1). E in effetti, come un alimento se lasciato ammuffire in frigo pian piano diffonde e sparge un odore sgradevole su tutti gli altri cibi “sani”, infettandoli, così l’Europa in quel periodo, nonostante non fosse scoppiata ufficialmente la guerra, puzzava già di morte. Può darsi che il nostro Pereira, tra limonate e omelette, tra il giornale e le conversazione con il ritratto della moglie, si stesse preparando a qualcosa di inevitabile.
A questo senso di attesa fa da sfondo una città seducente come Lisbona, con i suoi tram, i bar ed i colori brillanti, che distolgono lo sguardo da una situazione comunque difficile e opprimente: siamo sotto la dittatura militare di Salazar. Tuttavia Pereira resta in disparte, ancora troppo legato alle sue abitudini, si rifugia spesso nei ricordi di una vita alla quale continua ad essere morbosamente legato. Sarà l’incontro con una giovane coppia a scuotere la sua esistenza, permettendogli di scoprire in lui un nuovo “io”, e prendere finalmente posizione rispetto al regime (censura, nazionalismo, leggi liberticide). Questa storia è la testimonianza di come bisognerebbe rispondere con coraggio e con atti di umanità agli orrori di cui noi stessi siamo capaci; che talvolta, per l’atrocità, lascino annichiliti e increduli anche chi, con ingegno e abilità di parola, sarebbe in grado di denunciarli.
