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La scrittura di questo commento/articolo tenta di racchiudere la crescita e le emozioni di Gordie che, con il raggiungimento dell’età adulta, guarda indietro verso i ricordi belli e brutti della sua infanzia, insieme al suo amato, nella maniera con cui dei ragazzini possono amare, gruppo di amici.
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Quando si è bambini si guarda sempre al mondo degli adulti con uno sguardo di sfida.
“Io non sono piccolo, posso farlo!” Che tu sia solo, in compagnia, che tu stia facendo un semplice esercizio di matematica o che tu stia guardando negli occhi qualcosa mille volte più grande e spaventoso.
Tu puoi, allora lo fai e nell’esatto momento in cui sei abbastanza grande per farlo, te ne penti.
Rimpiangi quei momenti di spensieratezza dove tutto quello di cui ti dovevi preoccupare era non tornare troppo tardi a casa.
Ad un certo punto quella casa svanisce. E tu sei solo.
Il narratore, infatti, non guarda indietro (solamente) con nostalgia.
Al ritorno di quei ricordi, che lo rincorrono anche nel sonno, lui vede quel ragazzino di dodici anni chiedendosi:
Come? Ma è inutile, la risposta la sa già.
Cosa? Una domanda che si pone, forse, per rinnegare ciò che è stato.
E se? Che senso ha, non esisteva strada più sicura. Solo loro e la loro avventura.
Ma la storia di quel gruppetto di ragazzini è scritta, lo è stata per molto più tempo di quanto lo scrittore stesso sia capace di ricordare.
“Avevo dodici anni la prima volta che vidi un cadavere.”
Così inizia Il Corpo, e in quell’incipit c’è tutto: l’infanzia che si spezza, la realtà che si fa viva e fredda. Il sangue e il tempo, il ricordo e la perdita.
La ricerca del cadavere inizia per gioco, qualcosa di lugubremente ingenuo, una strada lunga e rovinosa verso un corpo che era stato strappato via dal mondo dei vivi, un corpo sbalzato via dalle sue stesse scarpe.
Quello di Gordie è un gruppo bilanciato. Per personalità, per forza. Perfettamente bilanciato tra infanzia e vita adulta. Abbandonati a loro stessi, soli anche nello spazio “familiare” delle loro case. La loro famiglia è racchiusa in quei sorrisi di complicità a cui mancano le parole per esprimere il loro amore per l’un l’altro.
I pericoli che affrontano non sono epici. Non sono draghi o nemici di un film d’azione. Magari fosse stato così. No, quelli sono pericoli veri, che partono dalla paura che i loro genitori vengano a sapere che invece del campeggio, sono andati a trovarsi faccia a faccia con la morte. Da vivi, a morti. Senza spiegazioni, così come il morto che andavano cercando.
Il momento in cui devono affrontare i bulli – i ragazzi più grandi, i rappresentanti del mondo degli adulti, arrivati in macchina, cioè con un mezzo – è simbolico. Loro hanno camminato per chilometri, si sono graffiati, feriti, spaventati. Hanno “guadagnato” quell’esperienza. Quando Chris tira fuori la pistola, è il culmine del primo atto, la chiusura del cerchio: la pistola era stata nascosta, ed ora è la chiave. La violenza è reale, la paura è reale. Ma più reale ancora è la rabbia di sentirsi scippati del proprio rito, del proprio dolore.
Alla fine, nessuno muore in quella storia, ma tutti muoiono un po’. Il ragazzino che era Gordie, quello che ha visto un cervo all’alba e ha tenuto il segreto solo per sé, non esiste più. È rimasto in quella foresta. È diventato parte di un tempo che non si può recuperare.
Se chiudi gli occhi abbastanza forte, puoi ancora sentire l’erba sotto le mani e il sole sulla faccia. Ma quando li riapri, il corpo è lì. E non puoi tornare indietro.
Gordon, ormai trentenne, è l’unico sopravvissuto tra i quattro amici. Lo dice con semplicità, quasi inavvertitamente: “Ora che ho 34 anni, sono l’unico ancora vivo.” E la rivelazione pesa su tutto il racconto, riscrivendo ogni momento dell’avventura con un tono più amaro. All’epoca, nessuno muore – lo dice chiaramente – ma ora sì.
Vern e Teddy muoiono in incidenti, separati, dopo che le loro strade si erano già divise anni prima.
Il racconto delle loro morti viene fatto in maniera distaccata, come se la crescita lo avesse fornito anche di anestetici, come se quelle due anime non fossero state altro che due visi conosciuti in una vita passata.
Chris invece era rimasto lo stesso, una forza eroica, pacificatrice.
A dodici anni quel ruolo ti fa sentire grande, un faro per gli amici a cui tieni tanto.
A venti, ti condanna.
Perché forse è proprio quello che distingue l’infanzia dalla vita adulta.
Quando sei piccolo vuoi sapere, vuoi conoscere la vita sulla tua pelle.
Una volta cresciuto cerchi sicurezza.
Viene accoltellato. Tutto per un gesto impulsivo e coraggioso, coerente con ciò che era: uno che prova a impedire che le cose peggiorino.
Gordon lo legge sul giornale: “Studente muore accoltellato in un ristorante di Portland”, anche lui un viso, un nome, un’anima. Racconta che piange per mezz’ora, allontanandosi da sua moglie, tornando quel bambino di dodici anni che del futuro non ne sapeva nulla e preferiva passare il suo tempo a scrivere storie e giocare a carte con i suoi amici.
Il tempo ha fatto il suo lavoro: ha separato, ha disperso, ha cancellato le tracce. Il corpo del ragazzo morto non è stato portato via da loro, né da quelli che l’avevano trovato. È stato segnalato con una chiamata anonima. Nessuno ha fatto l’eroe, nessuno ha ottenuto gloria. E questo – forse – è ciò che rende quel momento così reale. Non c’è un premio per essere cresciuti. Non c’è nemmeno riconoscimento.
I profondi morsi dell’amore che lo scrittore descrive con rassegnazione non si rimarginano e probabilmente con la scrittura di questo libro, Gordon ha voluto sentire quel perpetuo dolore un’ultima significativa volta. Poiché, nel momento in cui le ferite si rimarginano la storia finisce, e nessuno è pronto per concludere quel capitolo della propria vita.
Un ultimo sogno d’infanzia, un’ultima risata fatta da quella voce acuta, un ultimo addio al bambino che era.
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