Nel 1873 la salma di un uomo bianco viene trasportata da due uomini neri dal cuore della Zambia fino alla costa, è un tragitto che dura nove lunghi mesi. Ma quali sono le ragioni che spingono a un viaggio tanto faticoso? Da dove proviene questa determinazione e fedeltà nei confronti di un bianco, simbolo dell’Occidente schiavista? E soprattutto chi è quest’uomo?
Petina Gappah è la donna che ha trascorso vent’anni della sua vita alla ricerca di risposte. Risposte che sono diventate un libro e poi una serie di presentazioni in giro per il mondo, come “Memoria”, l’incontro tenutosi sabato 30 Settembre al Cinema Apollo.
“Voglio parlare di chi vive, di chi muore e di chi racconta le nostre storie” così inizia il travolgente monologo della scrittrice zimbabwese. Il protagonista da cui tutto si sviluppa è proprio quell’uomo bianco, di nome David Livingstone, medico e missionario scozzese. Per raccontare questa storia Petina Gappah dà voce a chi non ha mai potuto averne una. Sechele, Kalulu , Susi, Mary, Chumah: capi, schiavi, donne e leali assistenti, le cui vite si intrecciano e si allontanano costantemente.
“Anche senza catene si può sempre essere schiavi, ero un esperimento, un gioco. Non avevo voce, perché il bianco aveva sempre ragione anche quando aveva torto.” Sono le parole di Kalulu, uno schiavo che, anche se liberato, ha continuato a sentirsi in schiavitù per tutta la vita.
Di bianchi come Livingstone ce n’erano pochi, gli altri erano arrivati in Africa solo per essere schiavisti o per nascondersi dietro la finta veste di liberatori, per poi acquistare schiavi e trattarli come loro proprietà.
Due marce parallele: una di gratitudine e fedeltà e l’altra di schiavitù e di obbligo. La strada percorsa dai fedeli compagni del missionario per restituire il corpo alla sua patria, è la stessa che gli schiavi percorrevano, scandita dagli ordini degli sfruttatori e dal peso delle pesanti catene.
Livingstone, nei suoi diari, racconta di essersi imbattuto più volte in mucchi di ossa, abbandonati sotto alberi. Erano resti di schiavi che si erano fermati per opporsi, i padroni non volevano perdere tempo, quindi li legavano agli alberi e morivano così.
Le parole della scrittrice risuonano intense in mezzo ad un pubblico che, in un silenzio tombale, pende dalle sue labbra. Parole che raccontano un passato di violenza e riscatto, con cui ancora oggi, questi paesi si devono confrontare.
La storia non può essere cancellata, ma esistono anche punti di vista alternativi attraverso cui può essere raccontata. Iniziamo, allora, a scovare le voci di questi popoli e uniamole a quelle che abbiamo sempre ascoltato.