La pena di morte è la massima forma di condanna che si possa infliggere. E’ una sanzione penale che prevede l’uccisione del reo. Tale procedura ha radici antichissime. Il primo popolo a darcene conferma è quello assiro-babilonese, il quale, nel noto Codice di Hammurabi, “occhio per occhio, dente per dente”, sanciva la pena capitale per chiunque fosse colpevole di omicidio, furto o persino di svolgere il proprio lavoro in modo pigro e trascurato. In questo modo si sperava di ridurre il pericolo che cadesse l’equilibrio dell’intera società; non a caso, non era un codice equo: tra un nobile ed uno schiavo colpevoli dello stesso reato, molto probabilmente lo schiavo veniva giustiziato, mentre all’altro sarebbe stata applicata una pena ben più leggera.
Quest’usanza non si fermò ai Babilonesi, ma si diffuse, come si suol dire, “a macchia d’olio”. Gli Egizi facevano ricorso alla pena di morte in caso venisse infranta la Maat, la legge universale rigorosamente osservata in Egitto. Essa comprendeva una sorta di norme espresse in formule di giuramento (es. “Non ho detto il falso”; “Non ho ucciso uomini”), che trattavano contenuti a cui somigliano quelli presenti negli ebraici Dieci Comandamenti. E non a caso il nome di tale legge deriva da quello della figlia di Ra, la quale era l’emblema di ordine, saggezza, ritualità, rettitudine, giustizia, morale e armonia universale. Solitamente le esecuzioni prevedevano annegamento del reo nel fiume Nilo, rinchiuso in un sacco, o la sua decapitazione.
Invece, presso le civiltà precolombiane (Maya, Aztechi, Inca), il furto era punito con la schiavitù e l’omicidio con la morte, in caso il colpevole non fosse in grado di risarcire adeguatamente i parenti della vittima. Anche l’adulterio comportava la pena capitale, ma ad essere punita non era la moglie, bensì il suo seduttore. Egli veniva consegnato nelle mani del marito ed era da questi ucciso, gettandogli dall’alto un grande masso sul capo.
Per ciò che riguarda i Greci, essi ritenevano che la vendetta andasse concepita come un dovere morale e sociale e che sarebbe stato considerato ignominioso il comportamento di chiunque vi avesse rinunciato. Infatti, in caso di omicidio, era di fatto consentito rispondere con la vendetta privata. Nei poemi omerici, tale atto provocava la reazione violenta da parte dei consanguinei del morto, ma si poteva trattare anche di un contesto ben più ampio di quello familiare. Questo concetto è chiaramente espresso nel primo canto dell’Odissea, dove Atena dice a Telemaco che, quando conoscerà la morte del padre, dovrà vendicarsi, come Oreste nei confronti di Egisto, acquistando gloria eterna.
“Non senti che gloria s’è fatta Oreste divino
fra gli uomini tutti, uccidendo l’assassino del padre,
Egisto ingannatore, che il nobile padre gli uccise?
Anche tu caro, poiché bello e aitante ti vedo,
sii forte, che ci sia chi ti lodi ancora fra i tardi nipoti”.
L’omicida per evitare la vendetta sarebbe dovuto andare in esilio o avrebbe dovuto risarcire la famiglia del morto con una somma di denaro o una quantità di beni. Nella Grecia dei tempi omerici, oltre alla giustizia cittadina, non sono rintracciabili i concetti di crimine o sanzione. Il primo vero intervento legislativo accertato in questo ambito fu la legge di Dracone. Essa comportò molte novità: innanzitutto, l’omicidio doveva essere sanzionato con pene diverse, in base del diverso atteggiarsi della volontà colpevole; se l’omicidio era premeditato, la pena era la morte; nei casi di omicidio non premeditato o involontario, la pena consisteva nell’esilio; nel caso di omicidio legittimo (precursore della nostra legittima difesa), nessuna sanzione era disposta. L’omicidio diventa reato nel senso moderno del termine, la pena è stabilita dalla legge ed è applicata in seguito all’accertamento della colpevolezza da parte di tribunali, istituzionalmente competenti per materia (il tribunale dell’Areopago, che doveva giudicare gli omicidi premeditati e il tribunale dei Cinquantuno, che doveva giudicare tutti gli altri omicidi). E di fronte a questo grande fenomeno, Platone non si sottrasse dall’esprimere un’opinione: “[…] se uno è riconosciuto colpevole di siffatto omicidio, avendo ucciso qualcuna delle suddette persone, i servi dei giudici e i magistrati lo uccideranno e lo getteranno nudo in un trivio prestabilito, fuori della città; tutti i magistrati portino una pietra in nome di tutto lo Stato scagliandola sul capo del cadavere, poi lo portino ai confini dello Stato e lo gettino al di là insepolto; questa è la legge”.
Per quanto riguarda, invece, l’antica Roma, inizialmente fu applicato anche dai romani il principio del taglione e ce lo dimostrano la VI e l’VIII delle Leggi delle XII tavole.
VI- “Si nox furtum factum sit, si im occisit iure casus esto” (“Se è stato commesso un furto di notte e uno avrà ucciso il ladro, questo sia stato ucciso a buon diritto”).
VIII- “Si membrum rupsit, ni cum eo pacit, talio esto” (“Se un tale romperà un membro a qualcuno, se non interviene un accordo, si applichi la legge del taglione”).
Tra le varie pene, stando alle leggi delle XII Tavole, inerenti a questa sfera, rientrano la decapitazione, la fustigazione a morte, l’impiccagione, il taglio degli arti, l’annegamento, il rogo, la sepoltura dei vivi e la crocifissione per coloro che invece non godevano della cittadinanza romana. Con l’età repubblicana la decisione della pena da infliggere vedrà una più netta distinzione: a chi fosse cittadino romano sarebbe spettata la decapitazione, mentre per chi non lo fosse, la crocifissione. Infatti, un episodio utile a testimoniare ciò, è quello risalente al 71 a.C. Più di 600.000 uomini che avevano seguito Spartaco nella sua rivolta contro Roma, furono crocefissi lungo le strade consolari. Ma i cittadini romani, a differenza di coloro che non godevano di tale privilegio (che,se condannati alla crocifissione, non avrebbero avuto alcun scampo), qualora fossero condannati a morte, potevano tuttavia ricorrere ad una garanzia basata sull’imperium del magistrato. Infatti, con le basi che poi daranno in maniera ufficiale forma alla lex Valeria de provocatione del 509 a.C, si sancisce la possibilità di commutare la pena capitale in un’altra pena, se così stabilito dal giudizio popolare. E Cicerone, non avendo rispettato questa prassi in occasione della congiura di Catilina, venne esiliato. A tutte le leggi criminali ma specialmente a questa, si accorperà poi quella di Lucio Cornelio Silla, Lex Cornelia de iniuriis, la quale intuì la quæstio circa il crimen iniuriæ; prevedeva che questi delitti, in origine risolti privatamente, venissero portati invece sotto una più ampia vista. I luoghi che hanno acquistato notevole fama per la curricolarità di questi procedimenti penali sono il Campus Sceleratus e l’Esquilino. Nel Campus Sceleratus, nei pressi di Porta Collina, le Vestali ree venivano sepolte vive, qualora infrangessero il voto di castità. Esso consisteva in un seminterrato provvisto di pagliericcio con una porticina che veniva sprangata dall’esterno. E dentro questa specie di cella alla sventurata non spettava altro che vivere la sua angosciosa e lunga agonia e le poche energie poteva guadagnarle solo con un bricco di latte, una pagnotta ed una lampada ad olio. La prima vittima di questa macabra sorte fu la nobile Pinaria, sotto il regno di re Tarquinio Prisco. Ad ogni modo tra le carneficine attuate per mano dello Stato Romano, ricordiamo anche quella dei primi cristiani, i quali, poiché ritenuti colpevoli di sovvertire l’ordine pubblico, furono dati in pasto alle fiere degli anfiteatri. Per quanto concerne le condanne a morte decretate con questo capo di accusa, esse ebbero fine nel 313 d.C. con l’editto di Milano, emanato da Costantino.
Con la caduta dell’Impero d’Occidente la storia dell’umanità volta capitolo, addentrandosi in ciò che conosciamo come Medioevo. In questo periodo furono scritte alcune delle pagine più buie, ricche di eventi, dove la confusione e la sovrapposizione di poteri giocarono ruoli da protagonista. Si diffuse la figura del feudatario e, giacché il re lasciava che al proprio potere si affiancasse il suo, non a caso era lui incaricato, fra le varie mansioni, di amministrare la giustizia. Di conseguenza, c’era una vasta fetta di delegati col compito di comminare pene, da quelle più insulse a quella capitale. Si giungeva ad attuare la sanzione più estrema in caso di omicidio, furto, sacrilegio e tradimento. Alle volte, si decretava la pena basandosi sulle leggi, altre sulla volontà del potente di turno, che abusava della propria carica.
Il cristianesimo, in particolare, si mostrava alquanto ambiguo in proposito, perché la pena estrema, benché non sia sostenibile in base a quanto scritto nei vangeli, è invece giustificabile sulla scorta della Lettera ai Romani di S. Paolo:
“Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna (…) Vuoi non aver da temer l’autorità? Fa’ il bene, (…) ma se farai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada. È infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male”.
Dunque, se da un lato il cristianesimo è abbastanza moderato nel comminare supplizi, dall’altro la Chiesa costantiniana e’ totalmente favorevole ad applicare la pena capitale, specie se il motivo della condanna tocca l’eresia. Infatti, essa venne ufficialmente legittimata dagli stessi padri della Chiesa Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino, basantisi sul principio della “preservazione del bene comune”, in nome del quale era concesso uccidere i singoli malfattori. Tommaso giustificò tale decisione, affermando nel “Summa theologiae” :
“Come è lecito, anzi doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di corruzione degli altri, essa deve essere eliminata per garantire la salvezza di tutta la comunità”.
In ogni caso, se è vero che la decisione se condannare a morte l’imputato o meno era poco ferrea, una volta condannato, la scelta del tipo di supplizio si potrebbe definire piuttosto categorica. Ai condannati per stregoneria, eresia e sodomia spettava la morte sul rogo. Tra le personalità di spicco a cui purtroppo capitò questa terribile sorte non si può non ricordare Giovanna D’Arco (1431), contro la quale v’erano settanta capi d’accusa, tra cui l’eresia, la stregoneria, e persino l’essersi vestita da uomo. Quanto alla decapitazione, essa spettava a qualunque condannato di sangue blu, mentre i borghesi non condannati per eresia, stregoneria o sodomia, erano destinati ad essere impiccati, annegati, lanciati da un dirupo, lapidati, crocifissi, sbranati, sotterrati, trafitti con frecce, impalati, lasciati a patire la fame e la sete, o altre pene ancor più macabre di queste. Di quest’ultima opzione ce ne parla in particolare modo Dante, descrivendoci, nel canto XXXVI dell’Inferno, il supplizio del conte Ugolino della Gherardesca. Inoltre, è importante sapere che la maggior parte delle esecuzioni assumeva le tonalità di una vera e propria celebrazione collettiva, con il palese scopo di intimorire il popolo. Benché la quantità di favorevoli alla pena di morte fosse ingente, d’altro canto vi erano molti sostenitori a favore della sua abolizione. Un filosofo ebreo, Mosè Maimonide, scrisse:
“È più soddisfacente assolvere un migliaio di individui colpevoli, piuttosto che condannare un innocente”.
Egli, quindi, aveva ben compreso che non vi sarebbe mai potuta essere totale certezza della colpevolezza dell’imputato. In Italia il re a rendere legittima la pena di morte fu Enrico II. Mentre, per quanto concerne la Cina, se adesso vige un regime a favore della pena di morte, nel medioevo, invece, tale sanzione fu interdetta dall’imperatore Taizong, e successivamente anche il Giappone durante l’impero di Saga, si aggregò all’abolizione della pena capitale. Nel mondo arabo, nelle novelle Mille e una notte, il contenuto è abolizionistico, quando accenna alla pena di morte.
Col tramonto del Medioevo, il numero di Paesi esercitanti esecuzioni purtroppo andò in aumento e molte pene vennero sostituite da altre che implicavano l’adozione di strumenti di morte innovativi. Per esempio, nella Francia dell’Ancien Régime” la condanna a morte era eseguita sottostando a metodologie più “raffinate”, anche in questo caso differenziate a seconda del rango sociale del condannato o del tipo di reato commesso. L’impiccagione era riservata ai contadini, la decapitazione ai nobili, la ruota ai colpevoli di delitti più atroci o a chi non si riconciliava con Dio, il rogo ai colpevoli di delitti contro la religione, lo squartamento a chi commetteva delitti contro lo Stato.
Con la Rivoluzione Francese furono abolite le distinzioni, poiché entrò in scena la macchina della ghigliottina.
Si iniziò a combattere per l’abolizione di tale segno di disumanità dalla fine del XVIII secolo. Una delle più significative denunce a riguardo fu di stampo italiano, ovvero il libro di Cesare Beccaria “Dei delitti e delle pene”. Quest’opera è, infatti, una riflessione politica, in cui l’autore prende in esame la situazione legislativa contemporanea ed esprime il proprio parere. Beccaria mette in discussione la legittimità dei governi di punire coloro che infrangono le leggi. Gli illuministi affermavano che tali dottrine comportassero un patto sociale tra lo Stato e il cittadino e, di conseguenza, anche la rinuncia ad una porzione di libertà, in modo da garantire il raggiungimento di qualcosa il più vicino possibile al concetto di ‘felicità collettiva’. La prerogativa immancabile, ci dice l’autore, deve essere l’utilità della pratica generale al bene comune. E perciò la costituzione e l’irrogazione delle pene deve far sì che il cittadino non commetta azioni nefaste a danno della comunità. Con l’adozione di quest’ottica non era più ammissibile continuare a stare aggrappati ai vecchi criteri, perché dannosi e privi di funzione pedagogica. Per frenare il delitto, non ci si dovrebbe abbassare alla crudeltà, ma garantire invece, la certezza della pena. Il diritto deve tener presente presente l’utilità comune, e al colpevole del reato non va inflitta una pena biblica. Beccaria, poi, rivolgendosi ai detentori della legge e della giustizia, esprime la sua denuncia, consigliando loro di badare che gli interessi della società siano ben salvaguardati, ovvero l’ordine pubblico e l’economia. Quindi l’autore puntava con ciò a rendere più consapevole chi era al vertice del ruolo governativo per la tutela della sicurezza dei cittadini. Le leggi sono l’idioma delle condizioni alle quali gli uomini liberi sottostanno, nel tentativo di far crescere e permanere uno status pacifico. Perciò il sovrano doveva amministrare queste norme e far sì che nessuno varcasse la soglia dove finiva la libertà propria ed iniziava quella altrui. Se qualsiasi legge fosse stata infranta, vi sarebbe dovuto essere un rapporto di causa-effetto con la pena ritenuta giusta per tale reato. Queste pene, invece, erano fisiologicamente dannose, per non parlare di quella capitale. Beccaria, nel suo libro tratta ampiamente delle pene, affermando che la punizione massima debba consistere nella carcerazione, così che il condannato non scappi. Ed essa deve essere sanzionata il prima possibile, per aver un miglior impatto pedagogico sul detenuto. Quanto alla pena di morte, egli la ritiene “una guerra della nazione contro il cittadino”, in quanto lo Stato presuntuosamente è convinto di poter giudicare utile o necessaria la morte di un individuo e invece essa non può essere catalogata come necessità pubblica. Infatti, l’autore pensa che la sanzione capitale sia futile, perché ciò che ha maggiore impatto su un uomo non è l’intensità della pena, ma la sua estensione. Tra l’altro, la pratica della pena capitale non è mai servita come utile esempio per smorzare il tasso di reati. Una pena più terribile per Beccaria sarebbe quella del condurre il resto della vita in schiavitù. E inoltre pare molto contraddittorio e primitivo punire un omicidio con un altro omicidio. In conclusione, egli ritiene siffatta sanzione poco funzionale alla prevenzione dei delitti. Perché sia funzionale, la legislazione dovrebbe portare al massimo di felicità gli uomini. Dunque il filosofo politico, più che presentare un vincente schema tecnico per una nuova legislazione penale, raccorda punto per punto il suo progetto ideale con riflessioni filosofiche, con lo scopo di imporre la corrente illuministica che all’epoca doveva ancora sbocciare in Italia. Ad ogni modo, quest’opera venne presa in esame anche fuori dall’Italia, influenzando in maniera decisiva i movimenti di riforma del diritto penale. Pietro Leopoldo di Toscana fu tra i primi ad effettuare l’abolizione totale della sanzione letale. Con l’apertura delle porte al XIX secolo, sempre più Stati si accorparono ad eliminarla, a partire dai Paesi occidentali. Essi sostituirono la pena capitale con l’ergastolo, ovvero il carcere a vita. In Italia essa venne abolita nel 1889, ripristinata nel 1929, e definitivamente cancellata con la fine delle due guerre mondiali (solo i reati fascisti facevano eccezione). Le ultime esecuzioni in assoluto tenutesi in Italia sono comprese tra la data del 26 aprile 1945 e del 5 marzo 1947 e le vittime in questione furono 88 traditori che avevano collaborato con la Germania. Fu con l’entrata in vigore della Costituzione Italiana dal 1° gennaio del 1948 che l’epoca delle esecuzioni tramontò definitivamente sul territorio italiano. In molti Stati, però, tale supplizio purtroppo non è svanito. Ad oggi i Paesi dove è ancora in vigore la pena di morte sono ben 58. Negli USA e nel Giappone la pena capitale è legale a livello federale per reati quali, ad esempio, alto tradimento, spionaggio che metta in pericolo la sicurezza nazionale, ecc. Invece, nei singoli stati degli USA essa vige in caso di omicidio premeditato e in giurisdizioni simili a quella del Texas, in situazioni concernenti al traffico di droga, omicidi iperviolenti, ecc. Dei 50 stati facenti parte dell’America, solo poco più di 15 non prevedono più sanzioni estreme (Distretto di Columbia, Illinois…). Dal 1976 non sono più applicate neanche in Kansas e New Hampshire. Altri tre stati sono in moratoria, che comporta la sospensione di tutte le condanne: l’Oregon dal 1997, l’Arkansas dal 2005, e il Kentucky dal 2008. Nella Costituzione degli Stati Uniti, con l’ottavo emendamento, si sancisce che la sedia elettrica, l’impiccagione e la camera a gas son considerate punizioni crudeli. Tuttavia non sono mai state ufficialmente vietate, tantomeno abolite. Rientra nelle sanzioni costituzionali l’iniezione letale o la fucilazione. Lo stato americano dove è stato monitorata maggiore attività è lo stato del Texas. La sua unica esecuzione commutata in ergastolo negli anni fu quella di Kenneth Foster jr, condannato a morte per l’omicidio di primo grado di Michael LaHood Jr. e rapina. Quanto al secondo emendamento, esso non solo garantisce la legittima difesa (in Italia si dispone dell’art. 52 del Codice Penale), ma anche la possibilità di detenzione d’armi:
“Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben organizzata milizia, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto”.
Tornando ai Paesi in cui vige ancora la sanzione capitale, tra questi non c’è da stupirsi che rientrino l’Arabia Saudita, la Cina e il Pakistan. Essa, nel caso dell’Arabia Saudita, essendo molto inflessibile la Sharia, è prevista per episodi di stupro, omicidio, rapina a mano armata, stregoneria, adulterio, sodomia, sabotaggio, traffico di droga e apostasia.
Per quanto riguarda la Cina, invece, non si può disporre di dati precisi, in quanto le pene sono applicate segretamente, ma, stando alle statistiche di Amnesty International, tale nazione dovrebbe stare in cima alla classifica per numero di condanne. In Pakistan è prevista l’impiccagione per casi di omicidio, poiché ritenuti espressione terroristica.
Questo tema non ha mai cessato di appassionare, tanto da essere stato preso in esame non solo da letterati come Beccaria, ma anche da registi moderni. Uno dei film più significativi che tratta di questa tematica è quello del regista tedesco Fritz Lang “M – Il mostro di Düsseldorf”. Con la messa sotto i riflettori di un serial killer poi processato, Lang funge da portavoce della scienza criminologa. Egli adopera un innovativo utilizzo del sonoro. Nel suo film, infatti, il primo motore, il risolversi della vicenda, e le cariche espressive, trovano il loro proprio fulcro nel suono di sottofondo. E applicando il canone noir, Lang lascia chiaramente intendere di volersi concentrare sul cattivo e sulle reazioni psicologiche ed emotive agli eventi circostanti. Quindi il serial killer Peter Lorre viene rappresentato sotto le vesti di un antagonista noir, con movenze da anti-eroe braccato e sensazioni di follia autodistruttrice.
In conclusione, molto significativo è anche il discorso di cui Camus fa portavoce il personaggio Tarrou nel romanzo ‘La Peste’.
“Pensavo che la società in cui vivevo fosse andata sulla condanna morte e che combattendola avrei combattuto l’assassinio. L’ho creduto, altri me l’hanno detto e, alla fine, in parte era vero. […] Naturalmente sapevo che anche noi, ogni tanto, pronunciavamo delle condanne. Ma tutti mi dicevano che quei pochi morti erano necessari per costruire un mondo dove nessuno sarebbe più stato ucciso. In un certo senso era vero, e forse dopo tutto sono io incapace di sopportare la verità del genere. […] Ha mai visto fucilare un uomo? No, certo, è possibile soltanto su invito e il pubblico è scelto in anticipo. Quindi lei è ancora fermo alle stampe e ai libri. Una benda, un palo, e alcuni soldati sullo sfondo. Be’, non ci siamo proprio! Lo sa che invece il plotone di esecuzione si piazza a un metro e mezzo dal condannato?[…] No, non lo sa perché questi non sono dettagli di cui si parla. Il sonno degli uomini, per gli appestati, è più sacro della vita. Non si deve impedire alla brava gente di dormire. Sarebbe di pessimo gusto, mentre il buon gusto, è risaputo, sta nel non insistere. Io però da allora non ho più dormito bene. […] Ho scoperto che avevo consentito indirettamente alla morte di migliaia di uomini, che aveva addirittura provocato quella morte trovando buone le ragioni e i principi da cui fatalmente era conseguita. Gli altri da questo non sembravano turbati, o perlomeno non ne parlavano mai spontaneamente. […] Mi sembra che la storia mi abbia dato ragione, oggi si fa a gara a chi ucciderà di più. Sono tutti in preda al furore omicida, e non possono fare altrimenti”.