“Splendori e miserie dell’impegno”, questo il titolo del nuovo manuale di Filippo La Porta, che arriva al Salone del Libro per presentarlo con l’aiuto di Donatella Di Pietrantonio. Il saggista romano mette subito in chiaro la tesi principale del suo libro: l’unico impegno di uno scrittore dev’essere scrivere bene. La scrittura deve infatti avere una sua necessità, l’autore deve prendersi cura delle proprie parole e fare dello stile il principale strumento per la conoscenza della realtà, senza renderlo troppo decorativo o liofilizzato. La scrittrice pescarese sottoscrive le parole del collega, soffermandosi sull’importanza della provenienza dell’autore, del suo mettersi in gioco e della sua motivazione nello scrivere. I due continuano il discorso parlando dell’assenza nella letteratura della bontà, data dal fatto che questa, in una società molto competitiva come quella moderna, può risultare quasi noiosa, andando a perdere il valore che la contraddistingue. Citando “V13” di Carrère e “L’Idiota” di Dostoevskij, affermano che abbiamo bisogno di personaggi letterari crudeli, poiché esasperano la piccola scintilla di cattiveria che è contenuta in ognuno di noi, e che la rappresentazione del bene nella letteratura è truce, infatti “L’Idiota”, essendo buono con tutti, finisce per fare del male. La Porta, sfruttando la provenienza della collega, inizia un confronto tra i due più grandi scrittori pescaresi, D’Annunzio e Flaiano. Il saggista e la romanziera concordano sul fatto di preferire il secondo, poiché sebbene riconoscano l’eccelso stile di D’Annunzio, trovano in questo un’assenza di autenticità, come se svolgesse solo un esercizio di stile; amano invece l’impegno sincero di Flaiano, caratterizzato da gioco, satira e inventiva linguistica. Trattano anche il tema della differenza tra l’ideologia soggettiva e oggettiva dell’autore, prendendo come esempio le idee e le azioni di Céline e della Serao, conflittuali con ciò che scrivevano, per affermare infine che la scrittura è un gioco che sfugge al controllo del suo stesso autore e che sono i critici o i lettori a far notare particolari di un libro che all’autore stesso erano sfuggiti. Concludono dicendo che la scrittura nasce da un disagio o da una ferita, anche negli autori apparentemente spensierati come Calvino, e lo scrittore deve andare a toccare quella ferita con onestà e, per appunto, con impegno.