Il malessere non è un tabù. La depressione non deve essere nascosta e, come la disabilità, non deve essere fonte di vergogna. Non si deve essere perfetti: siamo umani.
Sono le parole di Sasha “Sadagari” de Maria nel suo fumetto d’esordio “Diritto al malessere”, nel quale mette a nudo tutto ciò che secondo la società è bene tener nascosto. Il libro ha un’impostazione poco tradizionale, con “un botto di grafiche”, estratti di mail, passi di diario e lettere; dopotutto Sadagari si definisce artista digitale, non fumettista.
Il fumetto si incentra sulla sua vita, ma Sasha si rifiuta di definirlo una biografia, affermando che utilizza le sue esperienze personali partendo dal piccolo per arrivare alla guerra e alla politica. Il libro è nato dalla necessità di mettere su carta ciò che stava vivendo: stava uscendo da tre anni di depressione e non riusciva a trovare né senso né scopo, con tutte le cose terribili che stavano succedendo nel mondo. Ne sentiva il peso e l’unico modo che ha avuto di raccontarlo è stato attraverso i suoi sentimenti e la sua vita.
Il malessere non è connaturato all’individuo di per sé, ma è generato dal contesto che lo circonda. Il fumetto mostra come la mancanza di attenzione per i bisogni delle persone che abbiamo vicino genera quella che l’autore definisce “disabilitazione”. Spesso non ci si chiede il motivo per cui le persone si mostrano insofferenti e perciò i rapporti si irrigidiscono, peggiorando ulteriormente la loro condizione.
Sadagari non si limita però solo a trattare del malessere del singolo, ma anche quello sociale. Il malessere non è solo la malattia e la disabilità, è anche vivere in una realtà in cui alcune persone sono inferiori ad altre. Così Sasha arriva a parlare di attivismo, denunciando chi gode del privilegio di ignorare il malessere nel mondo. Individua la scuola come un colpevole, chiamandola un ambiente ostile, che toglie la voglia di studiare e ignora i problemi dei suoi studenti. Secondo lui è necessario che cambi qualcosa: la scuola deve essere uno spazio che insegni a vivere, non che serva a propagare la “retorica del buon lavoratore”.