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Adotta uno scrittore Lorenzo Gasparrini racconta il suo percorso all’Umberto Eco di Alessandria e alla casa di reclusione di San Michele


Lorenzo Gasparrini

Umberto Eco e Casa - Alessandria

Ero già stato in una casa circondariale: da docente universitario, ci sono andato per far sostenere esami a detenuti e detenute che potevano studiare. Un’esperienza molto importante per me, ma non tanto per le persone incontrate lì dentro – sempre studenti molto preparati e preparate – ma per ciò che quell’edificio, quei meccanismi di sicurezza, quelle continue barriere da aprire una alla volta davanti a te e da chiudere una alla volta dietro di te hanno lasciato sul mio corpo come sensazione di disagio, di insofferenza.
Niente del genere con le classi dell’Umberto Eco di Alessandria, e con i collaboratori di giustizia incontrati dentro la casa di reclusione San Michele. Qui il discorso sul mio saggio, che affronta il linguaggio sessista e le discriminazioni di genere presenti in tante espressioni della nostra lingua, è diventata la scusa per confrontarsi su tante pressioni e oppressioni ricevute tramite quella particolare categoria di parole, solo apparentemente marginali o volgari, come gli insulti.

Una volta proposti degli strumenti, dei giochi, delle storie sulle quali confrontarci, le differenze sono sparite. Chiunque in quel circolo, oltre le differenze di genere, d’età, di vita, di grado di libertà, ha messo in mezzo ciò che ha subito, ciò che non ha capito, ciò che è capitato senza avere senso, veicolato da parole rimaste dentro lo stomaco come indigeribili, sotto la pelle come schegge che camminano.

Ragazzi e ragazze hanno avuto molto da fare con tutta una serie di racconti sociali legati alle parole che indicano il loro sesso, quello che pensano di poterci fare, quello che la società ritiene lecito oppure no, opportuno oppure disdicevole. Con molto interesse ci siamo raccontati di quando si è bambini e bambine, perché quello è il momento in cui s’impara il potere degli insulti, delle “parolacce”: destare l’attenzione dei grandi, suscitare interesse, richiamare l’attenzione. Quando si è piccoli e piccole non s’impara il significato di quelle parole, ma il loro potere – da grandi è la cosa che ci ricorderemo di più.

Da grandi, da persone che hanno stravolto molte vite e poi anche la loro con la scelta di essere collaboratori di giustizia, i detenuti hanno voluto saperne di più su di una parola che li insegue, che gli scagliano addosso, che spesso sporca la vita anche dei loro affetti: la parola “infame”. Così è entrata in quel circolo tra studenti e detenuti la possibilità che un essere umano condanni un altro al silenzio, ma non nel senso di “tacere”: nel senso di impedire qualsiasi parola che parli di una persona, che la ricordi, che la nomini. L’infame non è chi non parla, chi viene ridotto al silenzio, ma la persona della quale non si deve più parlare; esiste ma non è nominabile, è peggio che morta – almeno una persona defunta ha la lapide che dice qualcosa. L’infame non ha neanche quella.

In questo scambio di esperienze e di racconti umani, di parole e dolori, di poteri e di discriminazioni, solo una cosa mi ha fatto molto male. Venire a sapere che ci sono “colleghi” che si rifiutano di entrare in un carcere a parlare ai detenuti, perché il posto gli fa paura, i detenuti gli fanno paura, sapere chi sono gli fa paura – se sono lì dentro ci sarà un motivo, dicono, spesso. Non riesco a capire questo ragionamento.
Prima di tutto, non c’è luogo più sicuro di un carcere per incontrare un criminale. Inoltre, è un essere umano al quale, credo, più che ad altre persone servono parole diverse, racconti nuovi, possibilità espressive che non ha avuto, strumenti emotivi e cognitivi che forse finora non ha avuto altro tempo e altro luogo per incontrarli. Io, che faccio (anche) questo di mestiere, come mi posso negare questo dono?

Sì, andare in carcere con ragazzi e ragazze è stato un dono. Lo avete sentito mille altre volte – eh, probabilmente perché è un’esperienza reale di donazione di sé, reciproca. Ho sentito parole inimmaginabili da me prima di questi incontri, e ne ho date di altre mai sentite prima lì dentro, da loro. Sono uscito di lì con motivazioni, volontà e un’energia che non immaginavo di poter più acquisire; invece erano lì dentro, bastava parlare di parole.

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