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Laura Buffoni racconta la sua adozione all’Istituto Boselli di Torino


Laura Buffoni

Istituito Boselli - Torino

Quando mi hanno chiesto se volessi partecipare ad “Adotta uno scrittore”, ho detto subito sì. Prima di tutto perché sono felice di contribuire a un progetto così speciale del Salone del Libro, e poi perché, da figlia di insegnati, sono cresciuta nella convinzione che la scuola sia importantissima. Gli incontri tra i banchi di scuola ti cambiano la vita, ci credo ancora. E così sull’onda dell’entusiasmo mi sono detta che in questa 1A dell’Istituito Boselli di Torino magari ci avrei scovato qualche scrittore in erba. Si trattava però di capire come farlo uscire fuori, questo talento nascosto nella 1A, come affrontare le ore insieme dal momento che avevo massima libertà su come impostare gli incontri, niente paletti o regole da seguire. Ho preparato una scaletta: nel primo incontro avrei potuto rompere il ghiaccio parlando un po’ di me, del lavoro che faccio e del percorso che mi ha portata a scrivere il romanzo d’esordio. Poi avremmo letto e commento testi di scrittori che hanno utilizzato il racconto di sé in prima persona, in ultimo avrei chiesto agli studenti di portare qualcosa di scritto, piccole storie e spunti personali da condividere in classe. 

Mi chiedevo se fosse un approccio troppo tecnico (la “lezione” sull’autofiction, per esempio) anche perché si trattava di un primo anno e, a detta dell’insegnate con cui avevo fatto una chiacchierata preventiva, non era esattamente una classe di lettori forti. Sarei riuscita a fare breccia su di loro? Qual era il giusto approccio? Per andare sul pratico, dovevo mettermi in cattedra o sedermi fra loro? L’essere diventata – quando è successo? – qualcuno che trasmette un sapere, e non più qualcuno che lo riceve, mi metteva in una posizione scomoda e complicata. Il fatto è che per me la scuola è la mia scuola, quell’esperienza unica e irripetibile e che ho fatto da studentessa negli anni Ottanta e Novanta. Scuola era la compagna del cuore, scambiarsi foglietti con caselle da barrare, lo zaino Invicta e la Smemoranda, dire molte parolacce e masticare BigBabol, fumare nei bagni e cercare di non farsi malmenare dai più cattivi. E anche, nel mio caso, fare tutto questo di nascosto dietro la divisa da brava studentessa, soprattutto prendere buoni voti.

Ed eccomi di nuovo in classe, in questa strana posizione ribaltata, non da interrogata però un po’ sì, a dibattermi nel tentativo di andare bene. Mi sono subito resa conto che i ragazzi erano refrattari alle tecniche di seduzione, ai miei goffi tentativi di prendere un bel voto. Loro volevano la ciccia. Perché se provi a barare si vede subito, se usi le scorciatoie, ecco che parte lo sbadiglio, se vai sul già noto, i pensieri iniziano a vagare liberi fuori dall’aula e addio per sempre. Forse nella scuola, come nella scrittura, sta tutto qui il segreto: bisogna metterci la ciccia.

Quando per l’incontro finale gli studenti hanno portato le loro idee scritte, nonostante si trattasse di una classe disomogenea soprattutto in termini di provenienze geografiche, le storie messe in comune erano tutte molto simili, ed erano simili anche alla mia, di storia, accaduta in un luogo lontano e tanti secoli prima che non esistevano neanche i cellulari. Si parlava di solitudine e paure, di cambiamento. E questo ci diceva che non è mai facile essere originali, ma anche che abbiamo un terreno comune e, se non ancora una stessa lingua (alcuni ragazzi della 1A sono arrivati in Italia da poco e lottano ancora con l’italiano), un sentire che è uguale per tutti. Un’altra cosa ci è parsa chiara: gli studenti che scrivevano “bene” e si erano appoggiati a questa abilità erano rimasti generici, le loro piccole storie erano corrette ma non vibravano. C’era poi un ragazzo che sembrava il classico personaggio della classe, quello a cui piace fare un po’ il buffone e a cui tutti vogliono bene, ma che a scuola non se la cava bene. Se ne stava nascosto all’ultimo banco e ridacchiava di imbarazzo perché aveva riconosciuto il suo foglio tra le pagine che tenevo in mano. I compagni se n’erano accorti e lo pungolavano divertiti. Le poche righe che aveva consegnato erano sgrammaticate, da insegnate avrei dovuto dargli un brutto voto. Ma quando ho cominciato a leggere subito si è fatto silenzio, niente più brusii e risatine. Quel momento era vero e utile per tutti, perché lì dentro c’era la ciccia. 

 

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