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In un mondo dove tutto scorre velocemente, con una moltitudine di attività da svolgere quotidianamente e altrettante distrazioni fornite dagli smartphone e dai social network, avere il tempo per leggere un libro per noi adolescenti non è un’attività facile.
Ecco quindi che molto spesso prendiamo un libro in mano più per dovere che per puro piacere intellettuale. Confesso che l’approccio a “Il Corpo” di Stephen King non è stato, almeno all’inizio, molto diverso, ma lo è diventato con lo scorrere delle pagine. Innanzi tutto, mi ha incuriosito molto scoprire come affrontavano l’adolescenza i ragazzi degli anni Sessanta, anche se in una realtà certamente lontana da noi, come gli Stati Uniti, ma simile un po’ per tutti, in un momento di grande euforia e di espansione economica e industriale appartenente al secondo dopoguerra, il cosiddetto “boom economico”. In secondo luogo, perché mio padre è nato proprio nel 1960 e spesso mi racconta che a quei tempi era tutto più semplice anche se per certi versi difficile, ma certamente più spontaneo.
Ma veniamo al contenuto del libro. Mi era stato detto che l’autore era solito affrontare temi horror, che francamente non mi hanno mai attirato. Anche in questo romanzo c’è l’aspetto horror, è vero, ma sembra quasi un fatto marginale, anche se in realtà diventa cruciale per la vita di quattro adolescenti di 12 anni, che durante l’estate del 1960, partono per un’avventura nei boschi del Maine per cercare un ragazzo scomparso.
Da ciò inizia il vero racconto con uno stile scorrevole e dinamico che tiene il lettore “incollato” alle pagine del libro, senza quasi riuscire a staccarsene per la gran voglia di arrivare alla fine e scoprire come va a finire. Merito di King che adotta una narrazione in prima persona con uno stile diretto e intimo. L’intera vicenda è raccontata dal punto di vista dell’adulto Gordie, che guarda al passato con malinconia e saggezza, alternando l’esperienza giovanile alla riflessione matura.
Una vicenda che nasce dall’idea di diventare degli eroi locali da parte dei quattro protagonisti, apparentemente diversi, ma in fondo molto simili, in quanto adolescenti, che decidono, di nascosto dai genitori, di partire a piedi lungo la ferrovia per cercare il cadavere.
Un viaggio che diventa una sfida continua per i ragazzi che devono affrontare la fame, la fatica, il timore di essere scoperti, ma anche pericoli reali come l’incontro con un treno su un ponte sospeso nel vuoto sopra il fiume o la minaccia di un gruppo di bulli più grandi di loro. Ed è qui che il libro non è più soltanto il racconto dell’avventura dei ragazzi alla ricerca di un cadavere, ma diventa il racconto del momento in cui scoprono che il mondo non è sempre giusto, che l’infanzia non dura per sempre e che la perdita fa parte della vita.
Ecco quindi che King apre le porte al lettore per un’attenta riflessione su vari temi importanti della vita. Innanzi tutto, il passaggio graduale, ma indubbiamente sconvolgente, dall’infanzia e dall’adolescenza alla scoperta del complesso mondo degli adulti. Laddove si innescano scontri generazionali e la difficoltà del rapporto con i genitori, spesso considerati vecchi brontoloni nostalgici invece di preziose ed esperte guide per affrontare le inevitabili difficoltà della vita. Il viaggio nei boschi potrebbe quasi diventare una metafora della crescita mentre il ritrovamento dal cadavere è ciò che sancisce la fine dell’età adolescenziale.
Ed è proprio la vista del cadavere che mette i ragazzi di fronte alla morte, ovvero un evento scioccante e rivelatore per i protagonisti che fino a quel momento vivevano una vita relativamente protetta.
Un altro tema che percorre tutto il libro è l’importanza dell’amicizia, rappresentata dalla relazione autentica e profonda tra i ragazzi, che, come avviene per ognuno di noi, si confidano, si proteggono e ovviamente si prendono in giro, ma sono consapevoli di potersi fidare l’uno dell’altro. Una vera amicizia, dunque, che però, come spesso accade è destinata a dissolversi nel tempo, lasciando solo il ricordo.
Senza contare poi un’altra riflessione che è la conseguenza di tutto: i dolori e i traumi subiti durante il cammino della vita lasciano un segno indelebile a livello emotivo e influenzano l’identità di ognuno di noi. Lo si capisce bene analizzando il comportamento dei quattro protagonisti. A cominciare da Gordie Lachance, il narratore, il cui rapporto con i genitori è freddo e distante, ma è soprattutto la morte del fratello maggiore Denny a fargli comprendere l’importanza dell’amicizia, ma anche il fatto che spesso il dolore fa parte della crescita.
Chris Chambers, migliore amico di Gordie, nonostante provenga da una famiglia violenta e disfunzionale, dimostra grande intelligenza e sensibilità, sentendosi intrappolato da un destino segnato da come gli altri lo vedono.
Teddy Duchamp è un ragazzo imprevedibile e instabile, che convive con le cicatrici psicologiche lasciate dal padre, veterano di guerra, vive in un mondo tutto suo, fatto di eroismo e orgoglio mal riposto.
Infine, Vern Tessio, il più ingenuo del gruppo, a volte goffo e impacciato, è costretto a convivere e lottare con la propria insicurezza.
Personaggi diversi che però sono accomunati da un unico comune denominatore che è la perdita dell’innocenza.
Il libro di Stephen King, dunque, è certamente una raccolta di emozioni e di sentimenti, ma soprattutto, in un libro abbastanza breve, un concentrato di tantissimi spunti di riflessione per mettere a confronto quanto fosse difficile diventare “grandi” a quei tempi e quanto lo sia ora.
In fondo, le notizie che ogni giorno ci parlano di violenza giovanile e l’aggressività delle cosiddette “baby gang” che terrorizzano certe zone di varie città italiane, possono essere paragonate all’incontro con la gang di bulli guidata da Ace Merrill. Così come la voglia di affrontare l’avventura alla ricerca del cadavere di Ray Brower allo scopo di diventare degli eroi locali non è forse simile al comportamento di tutti quelli che si fanno dei selfie in ogni momento da postare poi sui vari canali social in modo da ottenere un momento di notorietà?
Per non parlare poi del linguaggio utilizzato spesso da alcuni protagonisti per catalogare certe situazioni con definizioni, magari frequenti a quell’epoca, ma senza dubbio intollerabili oggi in un mondo in cui tutti parlano di inclusione. Quanto poi si tratti solo di tanti discorsi, magari anche politici, senza poi arrivare davvero a fatti concreti, è una domanda che mi pongo spesso. Ma questo è un altro discorso.
Sono solo piccoli esempi che mi tornano alla mente, dopo aver letto il libro, che mi portano a un’unica riflessione: nonostante siano passati tanti anni e i contesti siano diversi e forse più evoluti ( ma anche qui ci vorrebbe un serio approfondimento per capire se lo sono davvero) ,le difficoltà, le prove da superare, le paure e i diversi stati d’animo probabilmente sono più o meno gli stessi che dovevano affrontare i ragazzi all’inizio degli anni Sessanta, sia pur descritti vent’anni più tardi da Stephen King.