“Per sconfiggere i pronostici non si vince da soli, c’è bisogno di gente che combatte per un mondo che ancora non vede” queste le parole del giornalista britannico Gary Younge, nella cui formazione dichiara essere stata centrale la figura della madre, infermiera originaria delle Barbados, che Younge dice “aver sempre avuto il coraggio di sperare per lui un futuro anche quando questo pareva non avere speranze”.
Ed è proprio in questo contesto, nella lotta per le proprie possibilità, nel desiderio di un mondo che non esiste ancora, che inizia la sua carriera giornalistica, come reporter del giornale The Guardian durante la campagna elettorale di Nelson Mandela.
Compare così per la prima volta nei suoi scritti il fenomeno dell’apartheid e con esso il concetto chiave dell’incontro tenutosi sabato 30 settembre presso il Teatro Comunale di Ferrara: il razzismo anti-nero. Il giornalista sostiene infatti che per comprendere il razzismo negli ultimi anni è necessario partire proprio dall’apartheid. La situazione attuale è cambiata molto da allora ma, anche se il mondo si è trasformato rispetto a trent’anni fa, ancora non siamo dove dovremmo essere, perché i processi di miglioramento non sono lineari. Negli stati occidentali sono aumentati i politici neri, i giocatori neri nelle nazionali di calcio, i movimenti di protesta come il Black Lives Matter hanno attirato molta attenzione e hanno aumentato a livello globale la consapevolezza delle discriminazioni ancora presenti. Molte cose però sono rimaste uguali, come per esempio l’enorme divario di ricchezza e condizioni di crescita tra bianchi e neri. Il presidente della Gran Bretagna ha origini indiane, ma per un indiano è ancora molto difficile poter entrare e vivere in questo Paese. La razza è un costrutto, ma il modo in cui siamo diversi conta: se questa infatti non ha una base scientifica, lo ha a livello antropologico. Il razzismo è passato da essere un fenomeno economico, un sistema di sfruttamento delle terre colonizzate e della loro forza lavoro per produrre profitto, ad un concetto culturale, ancora più difficile da sradicare.
E’ impossibile capire il continente africano se non si prende in considerazione l’impatto del colonialismo. Il razzismo dell’apartheid, ultimo emblema di violenta segregazione, è reale e codificato ed è durato più a lungo di quello di altri Paesi. Gli europei tendono facilmente a dimenticare o negare il loro passato coloniale e schiavista, in una sorta di amnesia coloniale, seppellendo questo ricordo e cercando un alibi. I cittadini di uno stato si dissociano solo dal passato negativo del proprio Paese, partecipando al senso collettivo di impunità storica. Questo sistema di potere decide, in nome dell’umanità, chi merita di essere ricordato e chi no e distorce la storia dei neri. Compito di molti scrittori e giornalisti è dunque quello di “scrivere per recuperare la memoria dell’arcobaleno umano”. Il passato ha un’eredità con cui conviviamo e il tentativo di responsabilità collettiva è un nostro dovere.
I Paesi colonizzati sono stati impoveriti tantissimo durante lo sfruttamento e poi, in seguito alla liberazione, sono stati abbandonati. Con la fine dell’apartheid la situazione non si è risolta immediatamente, perchè non si possono cancellare le cicatrici di secoli. “Non è sufficiente aprire i cancelli dell’opportunità a questi Stati, bisogna permettere loro di attraversarli”. A causa di questo razzismo sistemico i neri hanno più probabilità di essere poveri, di ricevere una scarsa istruzione, o ancora di finire in prigione.
Si deve dunque mirare alla costruzione di un’uguaglianza che non può essere dichiarata per decreto, ma deve essere forgiata politicamente. “La gente deve sostenere questo tipo di cambiamento, in quanto se non c’è lotta non ci sarà mai progresso” afferma Gary Younge.
E’ necessario rendersi conto di come nessuno sia un’isola, “il sacrificio di mia madre e il mio impegno non sarebbero bastati se fossi stato da solo, sono qui perché ho ballato con i sogni di altra gente”.