Cosa accadrebbe se si chiedesse a un’autrice speciale di scrivere un semplice articolo? Potrebbe nascere un romanzo. Un romanzo profondo e autentico che ha l’obbiettivo di raccontare una storia di guerra e di discriminazione, ma anche di resistenza e speranza.Questo è il caso di Cassandra a Mogadiscio (Bompiani, 2023) di Igiaba Scego che, nella giornata di venerdì 19 maggio, in occasione del Salone internazionale del Libro di Torino, ha dialogato con Tiziana Ferrario, instaurando una conversazione sincera e intensa riguardante le tematiche che Igiaba tratta nel suo romanzo. Come accade nella sua opera, dedicata alla nipote Soraja e nata con lo scopo di creare un ponte tra le diverse generazioni, l’autrice fa notare al suo pubblico che, al contrario di quello che spesso si pensa, la presenza somala è radicata nel nostro paese fin dagli anni ‘50.
“Nell’Italia non siamo una presenza nuova, eppure veniamo ancora trattati come se fossimo un corpo estraneo.” Il popolo somalo insediato nel nostro paese, nonostante il tempo trascorso, viene ancora lasciato ai margini della società. Anzi, non solo viene escluso, ma la sua storia viene negata e oscurata: ogni opera di colonialismo, ogni guerra attuata dai cosiddetti “bianchi” viene continuamente giustificata. The White Man’s Burden direbbe Kipling, era un fardello quello che l’uomo bianco doveva portare con sé; era un peso, infatti, dover civilizzare una società che, altrimenti, avrebbe continuato, secondo questa concezione, a vivere senza una cultura e nella completa ignoranza.
La verità, secondo l’autrice, è che nessuno è un “bianco puro”, tutti e tutte noi non siamo altro che una mescolanza. Ogni individuo immigrato in Italia, ogni figlio nato da una migrazione permette di costruire una pluralità che non conduce a una perdita, ma anzi a un arricchimento. In questo modo si intrecciano tra loro credenze, tradizioni e lingue. È così che si creano delle nuove realtà nelle quali un linguaggio importato può diventare proprio e, addirittura, trasformarsi in un mezzo per inventare nuovi suoni. I diversi linguaggi si uniscono e mutano, ma alcune parole rimangono le stesse perché indissolubilmente legate al loro significato più intenso e sincero.
Jirro: un unico termine che al suo interno racchiude tutta la devastazione esteriore e interiore dovuta alla guerra. Poche lettere che esprimono tutte le paure e i ricordi rimasti nel corpo dell’autrice che, come racconta nel suo romanzo, l’hanno costretta a cercare un modo di espellere tutto il male che aveva dentro.
“In Italia c’è tanto, è l’Italia che si è dimenticata di noi.”
Scego, durante l’intervista, spiega che nel nostro paese si trovano numerose prove della presenza somala e, soprattutto, che l’Italia, in quanto paese colonizzatore, è la memoria storica di un popolo che proprio a causa della guerra ha perso la maggior parte delle testimonianze. Questo è il caso della foto che ritrae sua madre, utilizzata come copertina del romanzo. Proprio per questo, come afferma la scrittrice, l’Italia dovrebbe fare da ponte; dovrebbe essere la prima a tentare di instaurare un dialogo proficuo basato su solidarietà e comprensione reciproca. Continuare a costruire delle barricate indistruttibili non è vantaggioso per nessuna delle parti, perché “i muri possono caderci addosso”.
Probabilmente, il punto di partenza per rivedere uno spiraglio di luce e speranza dopo anni di oscurità e terrore è proprio la cultura. Sono i libri, i romanzi, le opere che si occupano di raccontare le storie con quell’onestà tipica di chi nella scrittura mette la propria anima, che permetteranno a tutti e tutte noi di “ripartire dalla letteratura”.