Una cosa che ti ha colpito
Nonostante questo libro mi abbia colpito per numerosi aspetti, sia relativi ovviamente alla trama che allo stile dell’autore, ritengo che le descrizioni della città di Orano affetta dalla peste siano ciò che più mi ha meravigliato nel corso della lettura di questo romanzo.
Il primo esempio che desidero riportare per spiegare quali elementi delle descrizioni io abbia trovato più significativi è quello di pagina 198, da “La grande città silenziosa […]” a ” […] avrebbero infine zittito qualunque voce.” Oltre alla solennità e al potere evocativo delle parole adoperate mi affascina il significato di questo passaggio: la Peste ha svilito completamente l’umanità della comunità composta dagli abitanti della città, che non possono essere chiamati eroi perché non c’è spazio per alcun eroismo nei flagelli, come ci viene ricordato poco dopo a pagina 205, e che sono rimasti senza amore né libertà. Le statue degli antichi prodi sono imprigionate nel bronzo e nel glorioso passato dell’umanità, mentre gli uomini del presente a loro discendenti sono imprigionati da un nemico al quale non possono fare fronte e dalle speranze che ogni giorno sono loro sempre più negate. Le statue, immobili, rappresentano perfettamente la disperazione di quella città che, come afferma il narratore, sembra ormai essere destinata a divenire una necropoli dove nessuno potrà più testimoniare il significato dell’esperienza umana e della storia della nostra specie.
Questo potere di influenza che la peste ha non soltanto sull’individuo ma sull’umanità in quanto tale è espresso anche a pagina 226, dove il protagonista dell’opera teatrale “Orfeo ed Euridice” si accascia sul palco a causa della malattia destando l’orrore di tutti gli spettatori. L’anacronismo di quell’opera risulta quindi angosciante e l’eleganza della sala e degli spettatori viene infettata dal morbo e dal terrore dei cittadini che nuovamente riaffiora. Tale anacronismo in particolare segna il livello del potere di contaminazione raggiunto dalla peste, in grado anche di interrompere una rappresentazione che era stata messa in scena moltissime volte a Orano e infinite altre nel passato, da quando era stata concepita in un tempo nel quale la vita ancora scorreva nelle strade, si infilava nelle case e si intrecciava nelle vicende di persone irrimediabilmente e gioiosamente incoscienti della propria fortuna.
Un’altra cosa che ti ha colpito
Un altro aspetto del romanzo che senza dubbio mi ha colpito è la posizione di Albert Camus nei confronti della superstizione religiosa e del potere che la parola di un sacerdote fatalista potrebbe avere sulle coscienze di cittadini già stremati dal decesso dei propri cari, dall’impossibilità di ricongiungersi con le persone amate e dal terrore di andare incontro in prima persona alla corrosione inesorabile della peste.
Padre Paneloux prende la decisione senza dubbio nobile di entrare nelle formazioni sanitarie per combattere contro la peste in prima fila in compagnia dei dottori; eppure, si sa, religione e scienza sono separate da un abisso costituito da due diversi atteggiamenti nei confronti di determinati avvenimenti e due modi discordanti di concepire la verità: la scienza si fonda sulla capacità di fornire dimostrazioni concrete, la religione invece sulla fede incondizionata. Mentre nella nostra epoca moderna si sta tentando di colmare il vuoto tra esse, al tempo di Camus evidentemente gli strumenti intellettuali per trovare punti in comune tra queste due dottrine erano ancora in una fase prematura e presto Paneloux si scontra con Rieux, nonché il narratore e Camus stesso.
Nella sua seconda predica, infatti, il sacerdote afferma che la peste sia un risultato della volontà di Dio e pertanto che un cristiano che si rispetti debba non solo non combatterla, ma anche accettarla poiché la sofferenza di coloro che ne vengono colpiti sarà utile a tutta la comunità cristiana. Rieux trova che tale posizione sfiori l’eresia e che sia certamente importante rispettare la fede di coloro che si affidano alla volontà divina, ma anche necessario evitare che l’epidemia possa propagarsi causando ulteriori decessi e dunque sofferenza. Che si tratti di un castigo all’umanità o meno, non vi è comunque una buona ragione per “lasciare che il destino faccia il proprio corso”, e il mestiere del medico è proprio volto a salvare più vite possibile. Mentre per Paneloux accettare la volontà divina significa essere “attivi”, è per Rieux sinonimo di arrendersi e di essere dunque passivi nei confronti di una tragedia così devastante.
Durante i grandi flagelli l’umanità ha sempre cercato una giustificazione plausibile attraverso la religione, cercando di dare un senso al dolore e convertirlo in un insegnamento arricchente per la propria esperienza, dunque il fatto che Camus abbia espresso un’opinione così avversa a ciò soprattutto in un secolo ancora molto legato al cristianesimo (sebbene non tanto quanto nel passato) rispetto a noi è a mio parere sorprendentemente coraggioso. Camus in sostanza afferma che la peste non abbia avuto un’utilità morale e che quegli individui non abbiano fatto nulla di tanto malvagio da poterla definire un castigo: si tratta di una posizione probabilmente meno confortante, ma più filantropa e concreta.
Una frase del libro da conservare
“Col tempo mi sono soltanto reso conto che oggi anche quelli che erano migliori di altri non potevano fare a meno di uccidere o lasciare che si uccidesse, perché questa era la logica nella quale vivevano, e che in questo mondo non potevamo fare un gesto senza rischiare di far morire. Sì, ho continuato a provare vergogna, ho capito che eravamo tutti in preda alla peste, e ho perso la pace. Non smetto di cercarla, ancora oggi, sforzandomi di capirli tutti e di non essere il nemico mortale di nessuno. Quel che so è che ognuno deve fare il possibile per non essere più un appestato e che solo questo può farci sperare nella pace, o perlomeno in una buona morte.”
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