“Benché un flagello sia infatti un accadimento frequente, tutti stentiamo a credere ai flagelli quando ci piombano addosso.” […] “Si credevano liberi e nessuno sarà mai libero finché ci saranno dei flagelli.”
Da queste due citazioni, provenienti dalla mirabile finzione letteraria di Albert Camus, La peste, possiamo evincere un aspetto comune, potremmo dire quasi univoco, a tutte le pesti: esse sono sempre inaspettate e i danni peggiori che arrecano sono la mancanza di libertà e il pericolo di un contagio improvviso e inarrestabile.
In Lucrezio, in effetti, nel sesto libro del De Rerum Natura, viene riportata la descrizione dei sentimenti sperimentati dai familiari dei defunti, per esempio, che tornano a casa sfiniti dalle lacrime e dal dolore, dopo aver combattuto strenuamente per seppellire la folla dei loro defunti, abbandonandosi senza forze sul letto per la tristezza. Nessuno, spiega l’epicureo, si poteva trovare che né la malattia, né la morte, né il lutto non mettesse alla prova in una tale circostanza.
“Inque aliis alium populum sepelire suorum certantes; lacrimis lassi luctuque redibant; inde bonam partem in lectum maerore dabantur; nec poterat quisquam reperiri, quem neque morbus nec mors nec luctus temptaret tempore tali.”
Va detto, però, che nel De Rerum Natura, alla fine del libro sesto, del quale abbiamo appena discusso, ritroviamo in realtà una traduzione artistica di parte dell’opera originale, e se vogliamo anche in parte autobiografica, dello storico per antonomasia: Tucidide.
La trattazione di Tucidide, però, della peste di Atene privilegia l’oggettività a discapito del più spiccato espressionismo tipico di Lucrezio, che tende a sottolineare il patetismo delle sventure raccontate.
Oltre a ciò, Tucidide, nel libro II, 47-54, tende ad evidenziare lo scandalo sociale, provocato da uomini che si davano ai piaceri più sfrenati, oppure abbandonavano i malati per timore del contagio, anche quando parenti. È evidente lo scoraggiamento della popolazione, che comunque non sembra fermare alcuni dal fornire aiuto a chi è in difficoltà, provocando la strage maggiore.
L’esposizione di Tucidide è poi costruita sulla scorta della dottrina miasmatico-umorale diffusa in campo medico, che spiegava l’origine delle malattie infettive attraverso la diffusione nell’aria dei cosiddetti miasmi e delle particelle velenose che provenivano da essi e che venivano a contatto con l’uomo.
“La natura dell’epidemia superò le possibilità della parola, e come, per tutto il resto, ognuno ne fu colpito con una violenza che la natura umana non può reggere, così, che si trattasse di un evento fuori del comune rispetto ai mali consueti, fu dimostrato da una circostanza in particolare: gli uccelli e i quadrupedi che si cibano di carne umana, anche se vi erano molti cadaveri insepolti, non si accostavano a quei corpi o, se provavano a divorarli, poi morivano.”
Le sepolture sono poi indecenti, esattamente come accade nel Decameron di Boccaccio, che riprende anche il motivo dell’impoverimento dei valori morali.
Anche il tragediografo Sòfocle pensava probabilmente alla peste di Atene, quando mise in scena nel teatro di Dioniso, ad Atene, probabilmente intorno al 425 a.C., l’ Édipo Re. In questo caso, il diffondersi del morbo è causato dall’empietà nei confronti degli dei del gesto compiuto dal re Edipo, unendosi in matrimonio con sua madre, senza saperlo, generando Eteocle, Polinice, Antigone e Ismene.
“Se continuerai a regnare su questa terra come regni adesso, è meglio che tu la possieda popolata di uomini, anziché deserta: una torre o una nave non sono nulla, prive di uomini che in esse vivano.”
Lo scetticismo religioso proprio di Lucrezio sembra anche, infine, collegarsi al significato dell’esposizione di Tucidide: infatti, una conseguenza grave della peste di Atene, per le ideologie del tempo, fu proprio la perdita di fiducia negli dei, che andarono a perdere la loro posizione solenne, di conseguenza, anche nella rappresentazione artistica, cominciando ad essere rappresentati in scene più intime e quotidiane nel tardo classicismo.
Manzoni, seppur fervente credente nella Provvidenza, secoli più avanti, in I promessi sposi, riferendosi alla peste del 1600, riprende illuministicamente e lucrezianamente, se così si può dire, la questione dell’inutilità dello zelo religioso in situazione di epidemia, espresso tramite processioni, che non facevano altro che agevolare il contagio.
“Insieme con quella risoluzione, i decurioni ne avevan presa un’altra: di chiedere al cardinale arcivescovo, che si facesse una processione solenne, portando per la città il corpo di san Carlo.” […] “Federigo resistette ancor qualche tempo, cercò di convincerli; questo è quello che poté il senno d’un uomo, contro la forza de’ tempi, e l’insistenza di molti.” […] “Se poi, nel ceder che fece, avesse o non avesse parte un po’ di debolezza della volontà, sono misteri del cuore umano.”
In conclusione, possiamo affermare che il motivo della peste sia topico nella letteratura, per cui non c’è certo da stupirsi della sua ripresa da parte di uno scrittore contemporaneo come Albert Camus, che ha ripercorso sapientemente le orme di geniali menti del passato.