Anni 40’ del secolo scorso. Città di Orano, Algeria. Un’epidemia di peste, preannunciata dal progressivo incremento dei cadaveri di topi lungo le strade, dilaga e sconvolge il naturale andamento delle vite dei protagonisti.
L’autore, oltre a fornire dati precisi e dettagli particolarmente esaustivi circa l’evoluzione della pandemia in corso, si fa portavoce del grado di turbamento suscitato dal diffondersi del morbo in ciascun cittadino, portando alla luce reazioni e comportamenti estremamente differenti ed emblematici dei distinti ordini sociali.
Tali dettagli, tali sprazzi di vita di uomini e donne afflitte dalla peste e dalla reclusione forzata non sarebbero, a mio parere, risultati così chiari e comprensibili se non ci fossimo ritrovati coinvolti in una situazione pressoché analoga a quella riportata nel romanzo.
Nello svolgimento della vicenda vediamo infatti emergere le varie fasi dello stato pandemico nella loro totalità: dall’originale incredulità dinanzi alla notizia del dileguarsi della malattia al rifiuto di accettarne la pericolosità, dal panico incontrollato, con relativa perdita di raziocinio, all’entrata in vigore delle rigide normative e ancora dall’apparente solidarietà che lega gli uni agli altri nel dolore, sovrastando ogni consueta divergenza, alla trasgressione della legge nel nome di ideali quali libertà ed indipendenza.
Malgrado le difformità legate alle distanti epoche ed aree geografiche coinvolte, è impossibile non notare l’esemplare susseguirsi di analogie, legate tanto agli aspetti prettamente pratici ed amministrativi, quanto alle questioni più personali e specificamente sentimentali. Ne è un esempio concreto il cosiddetto esilio, che ritroviamo nell’odierno isolamento, e che è la causa e la matrice del vortice di ansia, preoccupazione, turbamento, rimpianto, nostalgia, rancore, disappunto e ancora malessere, prostrazione, scoraggiamento e sfiducia, compagno fedele di ciascun essere umano, in particolar modo di ciascun adolescente, nei mesi di “reclusione forzata”.
Così come alcuni personaggi dell’opera si sono lanciati nel tentativo disperato di fuggire, mettendo a repentaglio la loro stessa incolumità dinanzi alla legge, pur di vedere i loro occhi vuoti colmati dall’immagine angelica della persona amata, anche noi giovani, io in prima persona, ci siamo ritrovati a fantasticare su una possibile rottura dell’assurda situazione di stallo a cui eravamo condannati.
Se non avessi desiderato, nel pieno della pandemia, di infrangere ogni regola e di riassaporare quella libertà che mi sembrava così remota ed irraggiungibile, non sarei probabilmente riuscita a cogliere appieno il desiderio irrefrenabile del giornalista Rambert di imbarcarsi per la Francia, al fine di soddisfare una brama apparentemente alquanto egoista.
Allo stesso modo, le parole spese dal Camus per descrivere i gesti compiuti da Rieux e Tarrou e per delineare i valori morali alla base di un tale sacrificio, mi hanno fatto apprezzare la mia situazione privilegiata, in quanto ragazza in salute ed avvolta dal calore famigliare, riaccendendo in me la speranza in un imminente futuro di rinascita.
Il morbo è una bestia malvagia e senza pietà, si insinua di nascosto in corpi innocenti privandoli della loro condizione umana, portandoli a bramare la morte pur di sfuggire ad una tale piaga, ma l’ostilità, l’individualismo e la sfiducia nel lavoro umano e nella collaborazione sono senz’altro dei mali ancora peggiori ed è assurdo sperare in una ripresa della vita quotidiana se non ci si applica in prima persona nella tutela della nostre salute.