Leggere “La peste” fa ancora più effetto in un periodo come il nostro, caratterizzato da una situazione estremamente fragile e alienante -con cui forse ci stiamo abituando a convivere- e che fa capire come nonostante il mondo cambi, cambino le usanze, le tradizioni, i costumi e le abitudini, l’uomo, in fondo in fondo, rimanga sempre uguale, succube di una natura inaspettata e talvolta spietata che è in grado di spaventare e mettere in ginocchio, nel giro di poco, anche l’animale più intelligente e moderno.
E forse è proprio il significato di questo libro che bisognerebbe cercare di cogliere per poter affrontare e dare una spiegazione alla situazione in cui ci troviamo: la peste non è nient’altro che una metafora della vita, è arrivata e ha scombussolato una città che era imprigionata nella monotonia delle sue abitudini e nell’egoismo dei suoi abitanti intenti solo all’arricchimento personale.
E ancora oggi è così: la pandemia, proprio come la peste, è arrivata nel momento più opportuno, momento in cui la nostra società e la sua economia erano sature e necessitavano di una “rivoluzione”, o meglio, di un’evoluzione.
La malattia ha fatto capire come l’uomo non sia invincibile e ha dimostrato che non ha importanza lo status, l’attività o il prestigio: tutti gli uomini di fronte ad un momento di crisi globale sono tutti piccoli uguali e, spaventati, tentano di fuggire proprio come hanno tentato di fare Cottard con il suicidio piuttosto che Rambert con la fuga in Francia.