“La Peste” esce il 1947, due anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale ed è ambientato ad Orano, patria dello scrittore.
Definire il contesto è importantissimo per parlare del romanzo; se infatti il flagello protagonista è una malattia, gli effetti che ne derivano sono straordinariamente simili a quelli che si ritrovavano tra coloro che, durante le due grandi guerre, rimanevano a casa con un’incredibile solitudine e tristezza ad accompagnarli.
La sensazione che provoca Camus in un lettore del 2021 che ha vissuto la recente pandemia di COVID-19 tanta è di assoluto déjà-vu, dove la somiglianza tra la realtà e ciò che viene descritto nel racconto è incredibile.
Il fulcro della vicenda narrata, raccontata dal medico protagonista, come sottolineato a fine libro, è l’insensatezza della vita umana di fronte ad una così grande sofferenza come quella presente nel romanzo. All’inizio alcuni personaggi, come il prete, cercano di spiegare l’evento come frutto divino, ma, in piena linea con l’Assurdismo, la religione e la filosofia crollano davanti all’ineluttabilità della scienza e del caos mondiale.
Quindi il mondo è un titano che fornisce continue sofferenze e superarle è come Sisifo che solleva il suo sasso fino alla cima del monte per poi osservarlo rotolare giù; tuttavia la felicità è possibile: lo dimostrano alcuni eventi della narrazione.
Il primo modo per ottenerla è cercare di combattere il titano nella speranza di vincere qualche difficoltà, proprio come il dottor Rieux fa fino alla fine dell’epidemia, mentre il secondo è vivere accettando il caso, seguendo sì uno schema, ma senza una ragione di vita, come fa il vecchio spagnolo che snocciola piselli.
Tuttavia il caso non appartiene a nessuno e quindi un giorno può gratificarti e il giorno dopo ucciderti.
Camus quindi ci insegna a goderci i momenti belli della vita, come una nuotata nel mare, anche nelle grandi tragedie e di non accogliere la possibilità del suicidio per rimediare alle sofferenze.