“La guerra si scrive al presente”: questo è il verso di una poesia ucraina, che dà il titolo all’incontro tenutosi al Salone Internazionale del Libro di Torino nella giornata del 12 maggio. Le protagoniste del dialogo sono giornaliste abituate a raccontare fronti di guerra e zone di crisi umanitaria, climatica e migratoria: sono Annalisa Camilli, giornalista per Internazionale, che si occupa prevalentemente della questione migratoria; Cecilia Sala, giornalista per il Foglio e speaker del podcast Stories; Francesca Mannocchi, giornalista e documentarista per diverse testate nazionali e internazionali.
Appare superfluo sottolineare quanto il confronto sia stato prezioso e denso di contenuti. Le giornaliste hanno esordito raccontando ognuna l’esperienza che più ha messo in campo il loro sforzo nel selezionare una storia rappresentativa del contesto che stavano indagando. La prima fatica da scardinare, come descritto da Camilli, è il fatto di liberare il proprio punto di vista da inevitabili preconcetti e stereotipi; l’obiettivo deve essere infatti sempre quello di “bucare la coltre dell’indifferenza” che sempre più spesso circonda le zone di tensione, riportando le notizie con assoluta onestà intellettuale e precisione. Mannocchi ha proseguito la riflessione sottolineando come la selezione di cosa raccontare andrebbe guidata dalla “scomodità” e dal senso di stupore.
Un altro tema del dialogo è stata l’interazione con le fonti, qual è il modo migliore per interfacciarsi con le persone del luogo di crisi su cui si lavora, senza scadere da un lato nel cinismo e dall’altro nel pietismo? Occorre prima di tutto porsi al servizio del racconto, senza indulgere in curiosità morbose e senza rivittimizzare le persone oppresse e più deboli. Il punto di vista della reporter, o la sua sofferenza, non devono inquinare il racconto e sovrapporsi alla storia che la persona sta raccontando.
Viene ribadito come il mondo dell’informazione di oggi richieda alle giornaliste di raccontare solo le storie tralasciando il contesto. Se il giornalismo diventa propaganda, però, si appiattisce la narrazione e si perde la voce della persona. Le storie mancano di senso se non vengono inserite in un contesto più ampio e inoltre vengono percepite più distanti dalle lettrici o dai lettori. “Come giornaliste dobbiamo lottare per evitare ciò”.
Come non farsi sovradeterminare dal dolore di ciò a cui si assiste? Francesca Mannocchi afferma che il dolore è un dono solo quando non chiede niente in cambio. Sul campo si raccolgono tanti racconti di resistenza sofferta. E per la reporter diventa un’oscillazione tra grave impotenza e frustrazione da ritorno. Però il patto di fiducia con la persona che si racconta è limpido: “io non sono qui per aiutarti ma solo per raccontarti.” E per intercettare un tempo della vita di quella persona, che in guerra è preciso. La persona in guerra vuole raccontarsi perché ha bisogno di condividere la propria sofferenza.
Sicuramente una grande sfida è riconoscere gli impostori, coloro che vogliono sfruttare l’attenzione mediatica per far proliferare il clima di guerra, per imporre la visione di un lato o l’altro del conflitto. Invece la reporter vuole intercettare lo spazio di non rappresentato, il bambino che chiede che non vengano toccate le scuole, l’anziano barista che nonostante la pioggia di bombe tiene ancora aperto il locale.
E infine viene sottolineata l’importanza di mostrare anche i momenti di gioia, le feste, le fioraie nei sotterranei delle città ucraine, le bambine che costruiscono castelli di sabbia a Gaza. Nessuna paura deve esserci nel narrare lo svago, che è necessario ai sopravvissuti per non impazzire. Infatti in guerra il tempo è di attesa, e va riempito con leggerezza e balli, per ritagliarsi uno spazio di umanità e preservare la propria dignità.