Caro Jonathan, pur non vivendo io la stessa esperienza, la lettura del tuo primo romanzo mi ha offerto diversi spunti di riflessione, accompagnati dall’affiorare alla mia coscienza di sensazioni e sentimenti tra loro talvolta contrastanti.
L’aver dichiarato così palesemente e senza filtri il tuo vissuto e l’aver fatto trasparire tutto ciò che intorno a questo vissuto si è animato, non ha potuto non suscitare una profonda riflessione sulla condizione di detenuto che al momento vivo e di come questa condizione – al pari della tua – si riverberi sugli affetti familiari, nei rapporti con gli amici, nei rapporti con il mondo esterno. E così affiora quel senso di diverso che diventa vergogna e che, in qualche maniera, genera frustrazione nei rapporti con la famiglia. Non è facile per i miei figli e familiari accettare la condizione di un padre/marito detenuto, non fosse altro perché tale condizione è difficile da accettare anche da parte mia.
Di conseguenza non è cosa semplice riuscire a dichiararlo. Perché ciò darebbe adito, nell’ambiente in cui ci si trova a vivere, ad un’immediata discriminazione, ad una difesa impossibile, a tensioni nei rapporti con i coetanei o i conoscenti.
Perciò diventa più semplice “glissare” sul punto, non parlarne affatto, piuttosto che mentire o imbarcarsi in discorsi impossibili. Ed in questo ho visto una certa assonanza di “vedute” con te, che hai magistralmente osservato cosa ti accadeva intorno e come gli altri vivessero questa tua personale evidente condizione.
La vergogna richiama poi l’esperienza e la sensazione di paura. Paura che rimane costante. Paura che rimane legata all’incertezza di quello che potrà avvenire e di come, dismessa la condizione di detenuto, potrò essere riaccettato dalla società. Paura per i miei figli e per come si riadatteranno ad avere vicino e presente il loro padre dopo aver vissuto la sua mancanza in anni importanti per la loro formazione, paura delle loro reazioni davanti al “puntare l’indice” dei loro coetanei.
Con la vergogna e la paura si ripropone la sensazione della violenza, quest’ultima principalmente legata alla condizione di detenuto e di come questa condizione viene vissuta giornalmente.
Nel mondo dei detenuti e delle carceri, in questo microcosmo chiuso, le regole generali di “buon senso”, di “educazione” e di “privacy” sono assolutamente compromesse e continuamente messe alla prova, divenendo motivo di dissidi, di risentimenti e di generale ostilità. E’ un mondo falso in cui si fa fatica a vivere e dove per vivere si deve imparare a mentire, a scendere a compromessi e ad indossare delle maschere per uscire indenne da ogni situazione. Tutto ciò richiama e riporta violenza. Dalle violenze verbali di chi, non essendo in grado di sostenere un civile confronto dialogico, preferisce alzare il tono della propria voce, convinto che ciò basti a far prevalere il proprio punto di vista anche quando questo sia completamente sbagliato. Alle violenze ventilate, non potendosi talvolta sottrarre alle richieste avanzate. Alla violenza psicologica, vista la completa e continua mancanza di privacy.
Questo è il dolore, fatto di vergogna, paura, violenza. Ti ammiro, Jonathan, perchè hai saputo descrivere il tuo.