Una cosa che ti ha colpito
Una cosa che mi ha particolarmente colpita del romanzo è come Camus riesca a mostrarci più prospettive, non c’è la visione di una singola persona su come si sia formata la peste, sono presenti sempre conseguenze positive e negative. Per esempio, il sacerdote ci mostra due punti di vista: da un lato afferma che “privati della luce di Dio ora saremo a lungo immersi nella tenebre della peste” ma dall’altro dice anche che “lo stesso flagello che vi strazia vi eleva e vi mostra la via”. Perciò, in primo luogo sottolinea che la pesta abbia colpito Orano a causa del comportamento dell’uomo e della sua poca fede verso Dio, intesa sotto forma di “castigo”. Questo potrebbe far intendere che Dio sta abbandonando l’uomo in un certo senso ma in realtà vuole evidenziare quanto questa situazione alla fine gli mostrerà la via. E’ quindi presente questo contrasto perenne tra bene e male.
Un’altra cosa che ti ha colpito
Un altro aspetto che ho risentito personalmente ed ho quindi trovato affascinante é il ricorrente tema della solitudine. Un tipo di solitudine particolare, perché generalmente quest’ultima è un’emozione personale, molto soggettiva e di conseguenza forse ancora più tragica. La solitudine descritta nel romanzo La peste, di Camus, é invece diversa: è solitudine condivisa, un tipo di solitudine che affligge un’intera città ed è quindi in qualche modo alleviata da questo dolore collettivo. “Solitudine condivisa”, sembra un ossimoro ma garantisco che non é così. É una situazione particolare in cui il dolore del singolo, un dolore così personale, é il dolore di molti altri singoli.
Per fare un esempio di solitudine possiamo citare la situazione del Dottor Rieux, che ha creato inconsapevolmente la sua situazione di solitudine mandando la moglie in un centro medico prima dell’inizio dell’epidemia, vivendo con la convinzione (che si rivelò in seguito falsa) di poterla rivedere spesso. Non la rivedrà mai più.
Ora, questo é un caso singolo, ma ci sono un numero esorbitante di casi singoli. Quello del giornalista Rambert, per citarne un altro: quest’ultimo ha infatti lasciato l’amata a Parigi per dedicarsi ad un viaggio di lavoro ad Orano, dove rimarrà imprigionato per mesi, con la paura costante di non poterla rivedere mai più.
Ed é proprio questa la causa di una depressione così profonda: l’incapacità di prevedere quando e come l’epidemia, e con essa la sensazione di solitudine, finirà.
Una frase del libro da conservare
“In un primo tempo tutti avevano accettato di essere isolati dal mondo esterno come avrebbero accettato un inconveniente temporaneo che scombinava solo qualche abitudine”
Questa particolare citazione ha suscitato emozioni contrastanti in me. Da un lato, quando abbiamo avuto i primi contatti con la pandemia Covid e abbiamo avuto un assaggio delle conseguenze di quest’ultima, anche noi ci siamo sentiti come se tutto ciò non fosse più che un “inconveniente temporaneo”. Dall’altro, però, abbiamo anche provato quella forte paura tipica dell’ignoranza: quanto sarebbe durata la pandemia? E in che modo ne saremmo usciti trasformati?
I più pessimisti auspicavano una fine del mondo inevitabile, mentre altri non si lasciarono scomporre da tanto terrore e continuarono le loro vite senza particolari cambiamenti (certo, solo per un poco prima di essere obbligati a cambiare il corso della loro routine).
In ogni caso, trovo che una frase simile scritta nel 1947 si possa definire straordinaria: alla luce dei recenti eventi mi posso permettere di definire Camus un uomo illuminato e assolutamente avanti rispetto al suo tempo. Riuscire a capire la mente umana così a fondo, e soprattutto quali sarebbero state le sue reazioni a una tale tragedia non è cosa da poco, e gli faccio perciò i miei più vividi complimenti.
Commento su “La peste” di Alice Scano