Nome Scuola
Città Scuola
Quando ho letto “Il Corpo”, non mi aspettavo che un racconto di Stephen King – famoso per mostri, incubi e paure sovrannaturali – mi colpisse così nel profondo, con qualcosa di tanto umano: il ricordo dell’adolescenza, fragile e intensa, e il primo, vero incontro con la morte.
Le rotaie su cui camminano i quattro ragazzi non sono solo un mezzo per arrivare da qualche parte: sono una strada sottile e precisa, come il filo che separa l’infanzia dal diventare grandi. Mi ha colpito come King usi proprio le rotaie, fredde e dritte, per raccontare un cammino che non è solo fisico, ma interiore. Camminare lì sopra, in equilibrio, sotto il sole e con il rumore lontano del treno, mi ha ricordato quella sensazione che si ha da giovani, quando si sa che qualcosa sta cambiando ma non si ha ancora il coraggio di chiamarlo per nome.
E poi c’è la morte: non quella spettacolare da film horror, ma la morte vera. Un ragazzo come loro, trovato tra i cespugli. Immobile. Reale. È in quel momento che ho sentito qualcosa cambiare anche in me, lettrice. Perché non erano più giochi, avventure, prove di coraggio. Era la vita, quella vera, che faceva capolino per la prima volta. E lo fa sempre così: con silenzio, con sconcerto, con un peso che non si dimentica. Quello che mi ha toccato di più, però, è stato il modo in cui questi ragazzi affrontano tutto , insieme. Con battute, silenzi, sguardi. Perché a dodici anni, anche se non lo sai ancora, certe esperienze ti legano per sempre. E anche se poi la vita vi separa – come succede nel racconto – quel momento resta. Come un nodo invisibile nel tempo.
“Il corpo” non è solo un racconto sul trovare un cadavere. È un racconto su come si perde l’innocenza. Su come ci si scopre vulnerabili. Su come si impara che la vita va avanti, proprio come un treno lungo quelle rotaie, senza fermarsi.
E ogni volta che rileggo quella frase finale – “Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a dodici anni. Gesù, ma chi li ha?” – sento un nodo in gola. Perché è vero. E forse, in fondo, è questo che fa più paura di tutto.